Una delle principali curiosità che suscita il tema del multilinguismo negli atti normativi internazionali è se risulti possibile ipotizzare una soluzione interpretativa unitaria, ossia se, al contrario, i criteri ermeneutici che si impongono differiscono a seconda del tipo di atto. Sussistono, in sostanza, regole di interpretazione applicabili a tutti gli atti normativi internazionali, ovvero la diversa natura delle fonti del diritto internazionale giustifica l’applicazione di differenti regole ermeneutiche? L’indagine ha preso le mosse dall’interpretazione dei trattati, et pour cause. Lo studio relativo a tale fonte del diritto poggia infatti su solide fondamenta, poiché esistono infatti precisi precetti di diritto internazionale sia pattizio che consuetudinario che regolano la materia: sono quelli di cui all’art. 33 della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati. L’interpretazione dei trattati redatti in più lingue, per quanto rilevante, non può, né deve, tuttavia, esaurire l’argomento. Le altre fonti del diritto internazionale che non paiono poter essere trascurate sono le fonti secondarie, ed in particolare le fonti previste da accordi. Si ritiene invero che tali fonti, al giorno d’oggi, rivestano un’importanza di primo piano nell’ambito di un’opera dedicata all’interpretazione delle fonti del diritto internazionale redatte in più lingue In primo luogo, infatti, le fonti previste da accordi – e nello specifico quelle contenute nei trattati istitutivi di organizzazioni internazionali – sono nell'epoca attuale aumentate in modo rilevante, sia numericamente che per quanto concerne le materie che sono state chiamate a regolamentare. Peraltro, mentre sino alla seconda guerra mondiale le organizzazioni internazionali esistenti erano sostanzialmente mono o bi-lingue, dal secondo dopoguerra molte di esse presentano una pluralità di lingue ufficiali. Pertanto, spesso, gli atti normativi delle organizzazioni intergovernative stesse sono in più lingue ufficiali. Vi è poi una caratteristica di tali atti che li distingue profondamente dai trattati internazionali: mentre questi ultimi contengono norme giuridiche emanate in virtù di procedimenti sui quali gli Stati esercitano il proprio controllo, per cui sul piano internazionale, in generale, vi è identità fra il soggetto che crea la norma e quello cui essa si applica e la norma così creata non è vincolante per chi non esprima il suo consenso, nel diritto internazionale contemporaneo sovente non è così per gli atti delle organizzazioni internazionali. Oltre alle decisioni del Consiglio di sicurezza, un’attenzione specifica verrà dedicata agli atti di diritto derivato dell’Unione europea. Tale organizzazione internazionale riveste particolare interesse, non solo in quanto l’Unione europea costituisce l’organizzazione regionale più avanzata sotto il profilo dell’integrazione degli Stati membri e delle competenze da essi cedute all’organizzazione stessa e neppure perché rappresenta un caso estremo, visto l’enorme numero di lingue ufficiali (ad oggi ben ventiquattro). Il profilo maggiormente rilevante è un altro e cioè che gli atti di diritto derivato di diritto UE non solo, normalmente, vincolano gli Stati membri a prescindere dal consenso del singolo Stato, ma altresì che, alcuni di essi (regolamenti e decisioni) vincolano direttamente le persone fisiche e giuridiche, mentre le direttive possono avere comunque effetti diretti. Alla luce dell’analisi effettuata pare di potersi concludere che non vi è uniformità fra le diverse fonti del diritto internazionale esaminate. I problemi sono diversi e le soluzioni non possono pertanto che essere differenziate, non essendo possibile utilizzare la medesima soluzione per questioni differenti. Il problema del multilinguismo non è unico, ma a cascata. In primo luogo i trattati si differenziano dagli atti vincolanti delle organizzazioni internazionali. Mentre per i primi, alla luce di quanto disposto dalla Convenzione di Vienna del 1969 al centro della risoluzione del problema interpretativo vi è la volontà degli Stati, che sono al contempo autori e destinatari della norma e solo in assenza di tale volontà è previsto il ricorso a strumenti metalinguistici, quali la maggiore o minore corrispondenza con l’oggetto e lo scopo del trattato, per i secondi sembra che i dubbi interpretativi possano essere superati ricorrendo alla c.d. “lingua originale”, ovvero la lingua in cui l’atto è stato discusso, essendo questa quella che meglio permette di afferrare la volontà del legislatore. Vi è poi un’ulteriore differenza: uno dei criteri comunemente utilizzati per risolvere i problemi interpretativi dei testi normativi multilingue è quello della presunzione di significato convergente fra le varie versioni linguistiche. Orbene, mentre tale criterio appare indubbiamente applicabile non solo ai trattati (essendo peraltro espressamente previsto dal comma 3 dell’art. 33 della Convenzione di Vienna del 1969), ma anche alle risoluzioni del CdS dell’ONU, la sua applicabilità concreta al diritto derivato dell’Unione europea desta più di una perplessità, nonostante la presa di posizione in tal senso da parte della Corte di giustizia dell’Unione. Ciò significa che, mentre l’esame del testo nella c.d. “lingua originale” è residuale nel caso dei trattati, esso è uno strumento molto più rilevante nell’interpretazione delle fonti secondarie del diritto internazionale redatte in più lingue. Non assume, tuttavia, la stessa preminenza per le decisioni del CdS dell’ONU e per gli atti di diritto derivato dell’UE. Mentre per questi ultimi, infatti, in caso di questioni interpretative si dovrebbe ricorrere immediatamente al testo nella lingua c.d. “originale”, per le prime è opportuno che ciò avvenga unicamente in una fase successiva a quella del confronto di tutte le versioni linguistiche autentiche e solo se, effettuando tale confronto ed applicando la presunzione di significato convergente, non si è giunti ad una soluzione soddisfacente.

MULTILINGUISMO NEGLI ATTI NORMATIVI INTERNAZIONALI E NECESSITÀ DI SOLUZIONI INTERPRETATIVE DIFFERENZIATE

PASQUALI, LEONARDO
2016-01-01

Abstract

Una delle principali curiosità che suscita il tema del multilinguismo negli atti normativi internazionali è se risulti possibile ipotizzare una soluzione interpretativa unitaria, ossia se, al contrario, i criteri ermeneutici che si impongono differiscono a seconda del tipo di atto. Sussistono, in sostanza, regole di interpretazione applicabili a tutti gli atti normativi internazionali, ovvero la diversa natura delle fonti del diritto internazionale giustifica l’applicazione di differenti regole ermeneutiche? L’indagine ha preso le mosse dall’interpretazione dei trattati, et pour cause. Lo studio relativo a tale fonte del diritto poggia infatti su solide fondamenta, poiché esistono infatti precisi precetti di diritto internazionale sia pattizio che consuetudinario che regolano la materia: sono quelli di cui all’art. 33 della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati. L’interpretazione dei trattati redatti in più lingue, per quanto rilevante, non può, né deve, tuttavia, esaurire l’argomento. Le altre fonti del diritto internazionale che non paiono poter essere trascurate sono le fonti secondarie, ed in particolare le fonti previste da accordi. Si ritiene invero che tali fonti, al giorno d’oggi, rivestano un’importanza di primo piano nell’ambito di un’opera dedicata all’interpretazione delle fonti del diritto internazionale redatte in più lingue In primo luogo, infatti, le fonti previste da accordi – e nello specifico quelle contenute nei trattati istitutivi di organizzazioni internazionali – sono nell'epoca attuale aumentate in modo rilevante, sia numericamente che per quanto concerne le materie che sono state chiamate a regolamentare. Peraltro, mentre sino alla seconda guerra mondiale le organizzazioni internazionali esistenti erano sostanzialmente mono o bi-lingue, dal secondo dopoguerra molte di esse presentano una pluralità di lingue ufficiali. Pertanto, spesso, gli atti normativi delle organizzazioni intergovernative stesse sono in più lingue ufficiali. Vi è poi una caratteristica di tali atti che li distingue profondamente dai trattati internazionali: mentre questi ultimi contengono norme giuridiche emanate in virtù di procedimenti sui quali gli Stati esercitano il proprio controllo, per cui sul piano internazionale, in generale, vi è identità fra il soggetto che crea la norma e quello cui essa si applica e la norma così creata non è vincolante per chi non esprima il suo consenso, nel diritto internazionale contemporaneo sovente non è così per gli atti delle organizzazioni internazionali. Oltre alle decisioni del Consiglio di sicurezza, un’attenzione specifica verrà dedicata agli atti di diritto derivato dell’Unione europea. Tale organizzazione internazionale riveste particolare interesse, non solo in quanto l’Unione europea costituisce l’organizzazione regionale più avanzata sotto il profilo dell’integrazione degli Stati membri e delle competenze da essi cedute all’organizzazione stessa e neppure perché rappresenta un caso estremo, visto l’enorme numero di lingue ufficiali (ad oggi ben ventiquattro). Il profilo maggiormente rilevante è un altro e cioè che gli atti di diritto derivato di diritto UE non solo, normalmente, vincolano gli Stati membri a prescindere dal consenso del singolo Stato, ma altresì che, alcuni di essi (regolamenti e decisioni) vincolano direttamente le persone fisiche e giuridiche, mentre le direttive possono avere comunque effetti diretti. Alla luce dell’analisi effettuata pare di potersi concludere che non vi è uniformità fra le diverse fonti del diritto internazionale esaminate. I problemi sono diversi e le soluzioni non possono pertanto che essere differenziate, non essendo possibile utilizzare la medesima soluzione per questioni differenti. Il problema del multilinguismo non è unico, ma a cascata. In primo luogo i trattati si differenziano dagli atti vincolanti delle organizzazioni internazionali. Mentre per i primi, alla luce di quanto disposto dalla Convenzione di Vienna del 1969 al centro della risoluzione del problema interpretativo vi è la volontà degli Stati, che sono al contempo autori e destinatari della norma e solo in assenza di tale volontà è previsto il ricorso a strumenti metalinguistici, quali la maggiore o minore corrispondenza con l’oggetto e lo scopo del trattato, per i secondi sembra che i dubbi interpretativi possano essere superati ricorrendo alla c.d. “lingua originale”, ovvero la lingua in cui l’atto è stato discusso, essendo questa quella che meglio permette di afferrare la volontà del legislatore. Vi è poi un’ulteriore differenza: uno dei criteri comunemente utilizzati per risolvere i problemi interpretativi dei testi normativi multilingue è quello della presunzione di significato convergente fra le varie versioni linguistiche. Orbene, mentre tale criterio appare indubbiamente applicabile non solo ai trattati (essendo peraltro espressamente previsto dal comma 3 dell’art. 33 della Convenzione di Vienna del 1969), ma anche alle risoluzioni del CdS dell’ONU, la sua applicabilità concreta al diritto derivato dell’Unione europea desta più di una perplessità, nonostante la presa di posizione in tal senso da parte della Corte di giustizia dell’Unione. Ciò significa che, mentre l’esame del testo nella c.d. “lingua originale” è residuale nel caso dei trattati, esso è uno strumento molto più rilevante nell’interpretazione delle fonti secondarie del diritto internazionale redatte in più lingue. Non assume, tuttavia, la stessa preminenza per le decisioni del CdS dell’ONU e per gli atti di diritto derivato dell’UE. Mentre per questi ultimi, infatti, in caso di questioni interpretative si dovrebbe ricorrere immediatamente al testo nella lingua c.d. “originale”, per le prime è opportuno che ciò avvenga unicamente in una fase successiva a quella del confronto di tutte le versioni linguistiche autentiche e solo se, effettuando tale confronto ed applicando la presunzione di significato convergente, non si è giunti ad una soluzione soddisfacente.
2016
Pasquali, Leonardo
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