La centralità della questione della bellezza nella scrittura e nel sistema concettuale di Keats è da sempre stata messa in luce dai critici, i quali hanno spesso affrontato la questione esclusivamente sulla base del rapporto bellezza/verità e a partire dall’esame del famoso verso 49 dell’Ode on a Grecian Urn (“Beauty is truth, truth beauty”) e di alcuni celebri passi tratti dall’epistolario del poeta. La definizione della natura del bello keatsiano non si esaurisce, tuttavia, nel rapporto, per quanto rilevante, con la verità. Un esame sistematico e diffuso delle prove documentarie (produzione artistica, epistolario) ha infatti palesato l’esistenza di un altro importante aspetto dell’estetica del poeta: una concezione della bellezza come entità astratta, estensibile a tutti gli aspetti della realtà esperibile, caratterizzata da una forte indeterminatezza e fortemente legata alla risposta, unica e irripetibile, del soggetto. La connessione tra bello e sfera soggettiva, l’interesse costantemente manifestato da parte del poeta non tanto per la definizione della bellezza (mai classificabile, per lui, in maniera netta e precisa), quanto invece per i meccanismi che si innescano nell’ambito del rapporto con ciò che è sentito come bello fanno intuire che l’estetica keatsiana assuma, in maniera sempre più chiara e palese, i tratti di una vera e propria teoria della ricezione. L’analisi condotta lungo queste direttrici ha rivelato tutta la modernità di questa concezione. Da una parte, essa rappresenta una chiara presa di posizione rispetto alla concezione estetica del secolo precedente, la cui visione del bello e dell’arte, lucidamente e classicisticamente basata su presupposti oggettivi e razionali, era nonostante tutto ancora fortemente presente tra le pieghe della visione del mondo romantica. Dall’altra parte, la visione keatsiana è moderna in quanto sembra anticipare alcune fondamentali intuizioni di Jakobson e Šklovskij sulla ricezione del testo estetico, dato che il poeta sembra perfino prefigurare uno sviluppo dell’estetica che abbia come referente privilegiato non più tanto il bello né la definizione dei suoi parametri oggettivi, ma il sentire il bello, come attività percettiva e insieme creativa. Un’attività che non soltanto ripristina il ruolo del soggetto, delle sue percezioni immediate (categoria keatsiana della “sensation”) e del piacere sensibile dato dalla materialità del segno poetico (Jakobson), ma è anche capace di apportare il nuovo, di produrre l’inaspettato, di trasformare profondamente la realtà al momento di evocarla nella dimensione finzionale del testo artistico e di rinnovare radicalmente il rapporto tra l’io e il mondo generando un vero e proprio effetto di straniamento (Šklovskij), tramite quel processo di sistematica deautomatizzazione della percezione che fa di ogni incontro tra il soggetto e il testo poetico un evento unico e irripetibile.

«The principle of beauty in all things»: l’esperienza estetica come deautomatizzazione della percezione in John Keats

BECCONE, SIMONA
2005-01-01

Abstract

La centralità della questione della bellezza nella scrittura e nel sistema concettuale di Keats è da sempre stata messa in luce dai critici, i quali hanno spesso affrontato la questione esclusivamente sulla base del rapporto bellezza/verità e a partire dall’esame del famoso verso 49 dell’Ode on a Grecian Urn (“Beauty is truth, truth beauty”) e di alcuni celebri passi tratti dall’epistolario del poeta. La definizione della natura del bello keatsiano non si esaurisce, tuttavia, nel rapporto, per quanto rilevante, con la verità. Un esame sistematico e diffuso delle prove documentarie (produzione artistica, epistolario) ha infatti palesato l’esistenza di un altro importante aspetto dell’estetica del poeta: una concezione della bellezza come entità astratta, estensibile a tutti gli aspetti della realtà esperibile, caratterizzata da una forte indeterminatezza e fortemente legata alla risposta, unica e irripetibile, del soggetto. La connessione tra bello e sfera soggettiva, l’interesse costantemente manifestato da parte del poeta non tanto per la definizione della bellezza (mai classificabile, per lui, in maniera netta e precisa), quanto invece per i meccanismi che si innescano nell’ambito del rapporto con ciò che è sentito come bello fanno intuire che l’estetica keatsiana assuma, in maniera sempre più chiara e palese, i tratti di una vera e propria teoria della ricezione. L’analisi condotta lungo queste direttrici ha rivelato tutta la modernità di questa concezione. Da una parte, essa rappresenta una chiara presa di posizione rispetto alla concezione estetica del secolo precedente, la cui visione del bello e dell’arte, lucidamente e classicisticamente basata su presupposti oggettivi e razionali, era nonostante tutto ancora fortemente presente tra le pieghe della visione del mondo romantica. Dall’altra parte, la visione keatsiana è moderna in quanto sembra anticipare alcune fondamentali intuizioni di Jakobson e Šklovskij sulla ricezione del testo estetico, dato che il poeta sembra perfino prefigurare uno sviluppo dell’estetica che abbia come referente privilegiato non più tanto il bello né la definizione dei suoi parametri oggettivi, ma il sentire il bello, come attività percettiva e insieme creativa. Un’attività che non soltanto ripristina il ruolo del soggetto, delle sue percezioni immediate (categoria keatsiana della “sensation”) e del piacere sensibile dato dalla materialità del segno poetico (Jakobson), ma è anche capace di apportare il nuovo, di produrre l’inaspettato, di trasformare profondamente la realtà al momento di evocarla nella dimensione finzionale del testo artistico e di rinnovare radicalmente il rapporto tra l’io e il mondo generando un vero e proprio effetto di straniamento (Šklovskij), tramite quel processo di sistematica deautomatizzazione della percezione che fa di ogni incontro tra il soggetto e il testo poetico un evento unico e irripetibile.
2005
Beccone, Simona
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