Poeta futurista della prima ora e critico drammatico per «Il Secolo», Enrico Cavacchioli si avvicina alla scrittura teatrale immettendovi, come scrisse Emilio Barbetti, «il frutto di un’eloquenza variopinta e sonora», e inserendosi a pieno titolo nella poetica del dramma “grottesco”, di cui anzi può dirsi l’ispiratore (il primo uso del termine si ha infatti con il sottotitolo della sua prima commedia, La Campana d’argento, rappresentata senza esito memorabile nel 1914). Eclettiche e connesse alle punte più avanzate della drammaturgia europea (non sufficientemente rimarcata negli studi sullo scrittore ragusano è l’influenza del teatro russo, decisiva e motivata da una non superficiale conoscenza dei testi di Andreev), le commedie di Cavacchioli sono caratterizzate da una comunicazione scenica assai elaborata, che non esclude l’uso di ambientazioni inconsuete, luci “psicologiche” e personaggi tipizzati. Al termine di un decennio di lavori maturi e ben ripagati (basti citare almeno L’uccello del paradiso, Quella che t’assomiglia e La corte dei miracoli), Cavacchioli si rende protagonista di un progetto ambizioso, pensato per esaltare l’espressività mimica e corporea di Raffaele Viviani e realizzato col robusto apparato produttivo garantito da Za Bum (la compagnia fondata da Mario Mattoli e Luciano Ramo, che negli anni seguenti avrebbe ripetutamente sbancato il botteghino). Il cerchio della morte, caso peculiare di dramma “circense”, in cui dovevano amalgamarsi Sintesi futurista, pièce borghese, colore dialettale da rivista e caratteri della Commedia dell’Arte, generò aspettative assai elevate, sostenute da un massiccio battage pubblicitario; ma altrettanto clamoroso fu il fiasco dello spettacolo, fischiato dai duemila spettatori che riempivano il Teatro Lirico di Milano la sera del 20 dicembre 1929. Un fallimento che costrinse Cavacchioli a una difesa accalorata in un articolo apparso qualche tempo dopo su «Comoedia» (Difendo “Il cerchio della morte”). In vero, la scrittura di Cavacchioli raggiunge qui un vertice di originalità; per la tensione ad articolarsi in gestualità o in sonorità, accumulando, soprattutto nelle didascalie, un contenuto referenziale determinante ai fini del récit (elementi metateatrali, codici extralinguistici e arguti monologhi interiori), essa si lega ad alcuni episodi della scrittura drammaturgica di Savinio, di Bontempelli, di Marinetti, di Antonelli, ma anche di Pirandello, di Tofano, e ovviamente di Viviani, cui è legata a doppio filo, come dimostrano proprio certe indicazioni sceniche, che il presente contributo intende rileggere e analizzare.
Enrico Cavacchioli e le didascalie acrobatiche nel Cerchio della morte
Carlo Titomanlio
2020-01-01
Abstract
Poeta futurista della prima ora e critico drammatico per «Il Secolo», Enrico Cavacchioli si avvicina alla scrittura teatrale immettendovi, come scrisse Emilio Barbetti, «il frutto di un’eloquenza variopinta e sonora», e inserendosi a pieno titolo nella poetica del dramma “grottesco”, di cui anzi può dirsi l’ispiratore (il primo uso del termine si ha infatti con il sottotitolo della sua prima commedia, La Campana d’argento, rappresentata senza esito memorabile nel 1914). Eclettiche e connesse alle punte più avanzate della drammaturgia europea (non sufficientemente rimarcata negli studi sullo scrittore ragusano è l’influenza del teatro russo, decisiva e motivata da una non superficiale conoscenza dei testi di Andreev), le commedie di Cavacchioli sono caratterizzate da una comunicazione scenica assai elaborata, che non esclude l’uso di ambientazioni inconsuete, luci “psicologiche” e personaggi tipizzati. Al termine di un decennio di lavori maturi e ben ripagati (basti citare almeno L’uccello del paradiso, Quella che t’assomiglia e La corte dei miracoli), Cavacchioli si rende protagonista di un progetto ambizioso, pensato per esaltare l’espressività mimica e corporea di Raffaele Viviani e realizzato col robusto apparato produttivo garantito da Za Bum (la compagnia fondata da Mario Mattoli e Luciano Ramo, che negli anni seguenti avrebbe ripetutamente sbancato il botteghino). Il cerchio della morte, caso peculiare di dramma “circense”, in cui dovevano amalgamarsi Sintesi futurista, pièce borghese, colore dialettale da rivista e caratteri della Commedia dell’Arte, generò aspettative assai elevate, sostenute da un massiccio battage pubblicitario; ma altrettanto clamoroso fu il fiasco dello spettacolo, fischiato dai duemila spettatori che riempivano il Teatro Lirico di Milano la sera del 20 dicembre 1929. Un fallimento che costrinse Cavacchioli a una difesa accalorata in un articolo apparso qualche tempo dopo su «Comoedia» (Difendo “Il cerchio della morte”). In vero, la scrittura di Cavacchioli raggiunge qui un vertice di originalità; per la tensione ad articolarsi in gestualità o in sonorità, accumulando, soprattutto nelle didascalie, un contenuto referenziale determinante ai fini del récit (elementi metateatrali, codici extralinguistici e arguti monologhi interiori), essa si lega ad alcuni episodi della scrittura drammaturgica di Savinio, di Bontempelli, di Marinetti, di Antonelli, ma anche di Pirandello, di Tofano, e ovviamente di Viviani, cui è legata a doppio filo, come dimostrano proprio certe indicazioni sceniche, che il presente contributo intende rileggere e analizzare.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.