Nel Paradiso, il ricorso al mito è spesso finalizzato a sottolineare lo scarto esistente tra l’esperienza del poeta-pellegrino e le vicende raccontate nelle storie pagane. Proprio a questo servono gli exempla delle eroine coinvolte in una relazione amorosa con un dio: in confronto alla ricerca cristiana del perfezionamento spirituale, il mito ovidiano rappresenta per Dante un tentativo di deificatio mancata o imperfetta. In Pd. XXI 4-6, la sorte di Semele, folgorata dall’abbraccio del suo amante divino, è contrapposta a quella di Dante, che viene preparato per gradi alla visio Dei e a cui non è permesso neanche di ammirare il riso di Beatrice finché non è pronto. Europa, rapita da Giove mutatosi stavolta in toro, è chiamata a rappresentare uno dei lidi tra cui è compreso il Mediterraneo e quindi il mondo intero (Pd. XXVII, vv. 83-84); l’altro estremo è costituito dal «varco / folle» (vv. 84-85) di Ulisse, cosicché lo sguardo che Dante lancia alla terra, in procinto già di salire all’Empireo, si polarizza su due emblemi dell’errato avvicendamento tra umano e divino. Nel canto XIII, infine, il doppio cerchio formato dai beati festanti era stato paragonato alla costellazione della Corona borealis che, secondo il mito, fu originata dal diadema di Arianna. Dopo molte peripezie, l’eroina avrebbe avuto la sua apoteosi, giacché il catasterismo della sua corona corrisponde in definitiva a una forma di immortalità celeste conquistata dalla donna. Dante però avverte che il paragone mitologico non deve sviare dalla specificità della situazione descritta, cioè il canto intonato non certo a Bacco o ad Apollo, bensì rivolto all’unico vero Dio («Lì si cantò non Bacco, non Peana» etc.; v. 25 ss.). In Ovidio, la tela di Aracne polemizza contro le numerose unioni che gli dei avevano avuto con donne costrette per mezzo dell’inganno e della forza. Certo, Aracne nella Commedia è trattata come un caso esemplare di superbia, avendo osato sfidate il potere divino; tuttavia, Dante non disconosce la qualità superiore dell’arte aracnea, capace di dare un’impressione di realismo che può essere paragonata a quella prodotta dall’opera divina nei quadri di umiltà che corrono lungo la parete della prima cornice del Purgatorio. Non era stata semplicemente la perizia di Aracne a provocare l’ira di Minerva, che perciò la trasformò in ragno, ma il fatto che la tela rappresentasse i «caelestia crimina» (Met. VI, 131). Dante è ben consapevole che i pagani adoravano «dei falsi e bugiardi» (If. I, v. 72), cioè, in accordo all’opinione medievale, personificazioni di forze naturali altrimenti misteriose, idealizzazioni di comuni esseri umani, per lo più manifestazioni diaboliche. Il raptus cristiano, come quello paolino, si realizza in un’ascesa effettiva, in un reale contatto con la Divinità. Invece i rapimenti descritti da Ovidio, anche quando si concludono con una sorta di deificatio del rapito, non producono che una conquista parziale, offuscata da risvolti non sempre piacevoli. Così connotati sono i due raptus – con connessa deificatio – che circoscrivono il percorso purgatoriale di Dante: il rapimento di Ganimede (Pg. IX, vv. 22-24) e quello di Proserpina (Pg. XXVIII, vv. 49-51). Dante è trasportato sulla soglia del Purgatorio vero e proprio da quella che in sogno gli appare come un’aquila e che in realtà è Santa Lucia; allo stesso modo, Ganimede era stato rapito da Giove e portato sull’Olimpo, ma al prezzo di abbandonare la sua famiglia e diventare amante del dio. Conclusa la scalata e ormai approdato nel Paradiso terrestre, Dante descrive Matelda, dicendo che era tale e quale a Proserpina nel momento in cui fu ghermita da Plutone. Da Ovidio, il mito di Proserpina è narrato sia nelle Metamorfosi sia nei Fasti, fonti entrambi dell’episodio purgatoriale. Proserpina ricompare inoltre nel catalogo esemplificato da Aracne, a dimostrazione che la condanna aracnea della libidine olimpica assume nella Commedia una funzione programmatica. Infatti, secondo quest’ulteriore versione del mito, Proserpina sarebbe stata sedotta da Giove trasformatosi in serpente. Dopo aver fatto riferimento al peccato originale nella sacra rappresentazione di Pg. VIII e più volte nella cornice dei golosi, nell’Eden Dante preferisce dipingere un paesaggio bloccato a prima della corruzione, alludendo soltanto indirettamente alla tentazione in cui caddero i nostri progenitori. L’eterodossia, ovvero la novità, di Dante sta nel contemplare un range molto più vasto di racconti mitologici e di loro variazioni. Il messaggio sotteso, ricostruibile attraverso l’esegesi allegorica e figurale, è ortodosso, cristiano; la differenza decisiva è che Dante non riduce tutto al senso morale, ma lo rende auto evidente in immagini di straordinaria pregnanza narrativa e fantastica, che nulla tolgono alla fonte classica.

Raptus e deificatio ovidiani nel sistema della Commedia

Leyla Livraghi
2014-01-01

Abstract

Nel Paradiso, il ricorso al mito è spesso finalizzato a sottolineare lo scarto esistente tra l’esperienza del poeta-pellegrino e le vicende raccontate nelle storie pagane. Proprio a questo servono gli exempla delle eroine coinvolte in una relazione amorosa con un dio: in confronto alla ricerca cristiana del perfezionamento spirituale, il mito ovidiano rappresenta per Dante un tentativo di deificatio mancata o imperfetta. In Pd. XXI 4-6, la sorte di Semele, folgorata dall’abbraccio del suo amante divino, è contrapposta a quella di Dante, che viene preparato per gradi alla visio Dei e a cui non è permesso neanche di ammirare il riso di Beatrice finché non è pronto. Europa, rapita da Giove mutatosi stavolta in toro, è chiamata a rappresentare uno dei lidi tra cui è compreso il Mediterraneo e quindi il mondo intero (Pd. XXVII, vv. 83-84); l’altro estremo è costituito dal «varco / folle» (vv. 84-85) di Ulisse, cosicché lo sguardo che Dante lancia alla terra, in procinto già di salire all’Empireo, si polarizza su due emblemi dell’errato avvicendamento tra umano e divino. Nel canto XIII, infine, il doppio cerchio formato dai beati festanti era stato paragonato alla costellazione della Corona borealis che, secondo il mito, fu originata dal diadema di Arianna. Dopo molte peripezie, l’eroina avrebbe avuto la sua apoteosi, giacché il catasterismo della sua corona corrisponde in definitiva a una forma di immortalità celeste conquistata dalla donna. Dante però avverte che il paragone mitologico non deve sviare dalla specificità della situazione descritta, cioè il canto intonato non certo a Bacco o ad Apollo, bensì rivolto all’unico vero Dio («Lì si cantò non Bacco, non Peana» etc.; v. 25 ss.). In Ovidio, la tela di Aracne polemizza contro le numerose unioni che gli dei avevano avuto con donne costrette per mezzo dell’inganno e della forza. Certo, Aracne nella Commedia è trattata come un caso esemplare di superbia, avendo osato sfidate il potere divino; tuttavia, Dante non disconosce la qualità superiore dell’arte aracnea, capace di dare un’impressione di realismo che può essere paragonata a quella prodotta dall’opera divina nei quadri di umiltà che corrono lungo la parete della prima cornice del Purgatorio. Non era stata semplicemente la perizia di Aracne a provocare l’ira di Minerva, che perciò la trasformò in ragno, ma il fatto che la tela rappresentasse i «caelestia crimina» (Met. VI, 131). Dante è ben consapevole che i pagani adoravano «dei falsi e bugiardi» (If. I, v. 72), cioè, in accordo all’opinione medievale, personificazioni di forze naturali altrimenti misteriose, idealizzazioni di comuni esseri umani, per lo più manifestazioni diaboliche. Il raptus cristiano, come quello paolino, si realizza in un’ascesa effettiva, in un reale contatto con la Divinità. Invece i rapimenti descritti da Ovidio, anche quando si concludono con una sorta di deificatio del rapito, non producono che una conquista parziale, offuscata da risvolti non sempre piacevoli. Così connotati sono i due raptus – con connessa deificatio – che circoscrivono il percorso purgatoriale di Dante: il rapimento di Ganimede (Pg. IX, vv. 22-24) e quello di Proserpina (Pg. XXVIII, vv. 49-51). Dante è trasportato sulla soglia del Purgatorio vero e proprio da quella che in sogno gli appare come un’aquila e che in realtà è Santa Lucia; allo stesso modo, Ganimede era stato rapito da Giove e portato sull’Olimpo, ma al prezzo di abbandonare la sua famiglia e diventare amante del dio. Conclusa la scalata e ormai approdato nel Paradiso terrestre, Dante descrive Matelda, dicendo che era tale e quale a Proserpina nel momento in cui fu ghermita da Plutone. Da Ovidio, il mito di Proserpina è narrato sia nelle Metamorfosi sia nei Fasti, fonti entrambi dell’episodio purgatoriale. Proserpina ricompare inoltre nel catalogo esemplificato da Aracne, a dimostrazione che la condanna aracnea della libidine olimpica assume nella Commedia una funzione programmatica. Infatti, secondo quest’ulteriore versione del mito, Proserpina sarebbe stata sedotta da Giove trasformatosi in serpente. Dopo aver fatto riferimento al peccato originale nella sacra rappresentazione di Pg. VIII e più volte nella cornice dei golosi, nell’Eden Dante preferisce dipingere un paesaggio bloccato a prima della corruzione, alludendo soltanto indirettamente alla tentazione in cui caddero i nostri progenitori. L’eterodossia, ovvero la novità, di Dante sta nel contemplare un range molto più vasto di racconti mitologici e di loro variazioni. Il messaggio sotteso, ricostruibile attraverso l’esegesi allegorica e figurale, è ortodosso, cristiano; la differenza decisiva è che Dante non riduce tutto al senso morale, ma lo rende auto evidente in immagini di straordinaria pregnanza narrativa e fantastica, che nulla tolgono alla fonte classica.
2014
978-84-96322-66-0
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11568/1173905
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