Il libro ripercorre, in tre tappe, l’itinerario alfieriano dal testo alla scena. Si parte dalla vocazione tragica, esistenziale e creativa, ma ancorata a fondamentali documenti di poetica, che rivelano come l’autore componesse testi senza trascurare le tecniche di «quell’arte difficilissima del recitare», e si arriva alle esperienze vive di attore e di capocomico, in cui Alfieri incarna i suoi fantasmi di personaggi, prefigurando, forse, i fantasmi dei suoi spettatori del futuro. Nei teatrini dei palazzi aristocratici o nelle camere fiorentine, in polemica con il costume recitativo coevo, il poeta sperimenta in vitro, davanti a un pubblico miniaturizzato, l’effetto di una tragedia italiana di nuova qualità drammaturgica, per struttura e linguaggio. Attraverso i difficili o ambigui rapporti con i comici del tempo, e con i dilettanti che la sua “terribile” drammaturgia avrebbe avviato al professionismo, quel teatro diventa, sulla scena italiana dell’Ottocento, banco di prova per “grandi attori”. Ma è soprattutto con il secolo scorso che il libro intende confrontarsi: se l’immaginario alfieriano traduce le fosche storie delle sue famiglie regali in azione psichica di personaggi scissi, costretti a camminare sul filo della “crudeltà”, le messinscene novecentesche oscillano fra i poli opposti della spettacolarizzazione e dell’introversione, tra macchinerie scenografiche e ascetismo della parola.
"Alfieri e la scena. Da fantasmi di personaggi a fantasmi di spettatori"
BARSOTTI, ANNA
2001-01-01
Abstract
Il libro ripercorre, in tre tappe, l’itinerario alfieriano dal testo alla scena. Si parte dalla vocazione tragica, esistenziale e creativa, ma ancorata a fondamentali documenti di poetica, che rivelano come l’autore componesse testi senza trascurare le tecniche di «quell’arte difficilissima del recitare», e si arriva alle esperienze vive di attore e di capocomico, in cui Alfieri incarna i suoi fantasmi di personaggi, prefigurando, forse, i fantasmi dei suoi spettatori del futuro. Nei teatrini dei palazzi aristocratici o nelle camere fiorentine, in polemica con il costume recitativo coevo, il poeta sperimenta in vitro, davanti a un pubblico miniaturizzato, l’effetto di una tragedia italiana di nuova qualità drammaturgica, per struttura e linguaggio. Attraverso i difficili o ambigui rapporti con i comici del tempo, e con i dilettanti che la sua “terribile” drammaturgia avrebbe avviato al professionismo, quel teatro diventa, sulla scena italiana dell’Ottocento, banco di prova per “grandi attori”. Ma è soprattutto con il secolo scorso che il libro intende confrontarsi: se l’immaginario alfieriano traduce le fosche storie delle sue famiglie regali in azione psichica di personaggi scissi, costretti a camminare sul filo della “crudeltà”, le messinscene novecentesche oscillano fra i poli opposti della spettacolarizzazione e dell’introversione, tra macchinerie scenografiche e ascetismo della parola.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.