Nell’immaginario occidentale contemporaneo, il «terrorista suicida» è una figura dell’alterità che sembra sfuggire a ogni possibile comprensione. L’opinione pubblica lo rappresenta per lo più in termini di devianza, follia, fanatismo; il suo combinare la furia distruttrice e «barbara» con il sacrificio antiutilitario della vita suscita orrore e inquietudine. Un soggetto irrazionale, insomma, che è stato plagiato o agisce sulla base di credenze religiose «primitive», quali l’attesa di un premio nel paradiso. Altre correnti cercano invece di riconoscere una soggettività razionale ai terroristi suicidi: non si tratta di capire cosa c’è nella loro testa, si dice, ma solo di comprendere le strategie che utilizzano, riconducendo le loro motivazioni e il loro comportamento a finalità strumentali di ordine geopolitico e militare. Ma a sua volta questo approccio trascura la comprensione delle condizioni culturali specifiche e delle reti di relazioni sociali che producono la soggettività terrorista. Il contributo dell’antropologia culturale consiste appunto nel tentativo di ricostruire i contesti socio-culturali nei quali il terrorismo matura come una «normale» opzione della razionalità politica. Sono contesti caratterizzati per lo più da forti disuguaglianze e squilibri di potere, nonché da forme di violenza asimmetrica. Accanto a queste componenti strutturali, giocano un ruolo anche i sistemi simbolici e gli insiemi di codici e valori locali, che acquistano tanta più forza come risposta alle tensioni globali. Fra questi fattori vi è anche quello religioso, troppo spesso inteso in modo caricaturale e «primordialista», che va piuttosto ricondotto a una più ampia interpretazione della religione come lessico morale, strettamente intrecciato alle strutture sociali di base e ai fondamenti dell’intimità culturale.

Terrore suicida. Religione, politica e violenza nelle culture del martirio

DEI, FABIO
2016-01-01

Abstract

Nell’immaginario occidentale contemporaneo, il «terrorista suicida» è una figura dell’alterità che sembra sfuggire a ogni possibile comprensione. L’opinione pubblica lo rappresenta per lo più in termini di devianza, follia, fanatismo; il suo combinare la furia distruttrice e «barbara» con il sacrificio antiutilitario della vita suscita orrore e inquietudine. Un soggetto irrazionale, insomma, che è stato plagiato o agisce sulla base di credenze religiose «primitive», quali l’attesa di un premio nel paradiso. Altre correnti cercano invece di riconoscere una soggettività razionale ai terroristi suicidi: non si tratta di capire cosa c’è nella loro testa, si dice, ma solo di comprendere le strategie che utilizzano, riconducendo le loro motivazioni e il loro comportamento a finalità strumentali di ordine geopolitico e militare. Ma a sua volta questo approccio trascura la comprensione delle condizioni culturali specifiche e delle reti di relazioni sociali che producono la soggettività terrorista. Il contributo dell’antropologia culturale consiste appunto nel tentativo di ricostruire i contesti socio-culturali nei quali il terrorismo matura come una «normale» opzione della razionalità politica. Sono contesti caratterizzati per lo più da forti disuguaglianze e squilibri di potere, nonché da forme di violenza asimmetrica. Accanto a queste componenti strutturali, giocano un ruolo anche i sistemi simbolici e gli insiemi di codici e valori locali, che acquistano tanta più forza come risposta alle tensioni globali. Fra questi fattori vi è anche quello religioso, troppo spesso inteso in modo caricaturale e «primordialista», che va piuttosto ricondotto a una più ampia interpretazione della religione come lessico morale, strettamente intrecciato alle strutture sociali di base e ai fondamenti dell’intimità culturale.
2016
Dei, Fabio
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