Sono trascorsi più di trent’anni da quando sul Journal of the American Institute of Planners comparve un articolo, dal titolo ‘‘Requiem for large scale models” destinato a diventare famoso e ad essere oggetto di innumerevoli rimandi e citazioni, [19]. In esso l’autore, Douglass Lee, addebitava la crisi e il crescente scetticismo nei confronti dei modelli urbanistici e territoriali a vari fattori, elencati in modo sistematico come i peccati capitali della modellistica quanti- tativa, causa del declino della prima stagione dell’analisi urbanistica. Fra essi, come si può immaginare, la voracità (hungriness) di dati e informazioni, insaziabile per le effettive disponibilità dell’epoca, e la complicatezza (complicat- edness) dei modelli, tale da richiedere una esuberante capacità di calcolo e da frequentemente racchiuderne la logica in una impenetrabile black box. Ad essi, Lee aggiungeva la hypercomprehensiveness, ossia la pretesa di spiegare con tali modelli ogni aspetto e di servire ogni finalità, e l’ambizione di riprodurre con essi l’articolata complessità del reale. Infine, ma non da meno, ai modelli Lee imputava una inaccettabile grossness, ovvero li riconosceva capaci di fornire solo risultati grossolani, dotati di un livello di dettaglio assai modesto, nonché, in conseguenza, fisiologica- mente insensibili nei riguardi degli aspetti inerenti alla morfologia dell’insediamento. In altri termini, per Douglass Lee i modelli erano fatti per operare su scala sovraurbana e per fornire risultati interessanti unicamente la maglia larga della struttura insediativa: incapaci a focalizzare l’attenzione su contesti insediativi di livello microterritoriale e, men che meno, di riprodurre e dar conto di fenomeni attinenti la loro morfologia.

Alla ricerca della sintassi dello spazio urbano. Fondamenti concettuali e percorsi evolutivi

Cutini V
2021-01-01

Abstract

Sono trascorsi più di trent’anni da quando sul Journal of the American Institute of Planners comparve un articolo, dal titolo ‘‘Requiem for large scale models” destinato a diventare famoso e ad essere oggetto di innumerevoli rimandi e citazioni, [19]. In esso l’autore, Douglass Lee, addebitava la crisi e il crescente scetticismo nei confronti dei modelli urbanistici e territoriali a vari fattori, elencati in modo sistematico come i peccati capitali della modellistica quanti- tativa, causa del declino della prima stagione dell’analisi urbanistica. Fra essi, come si può immaginare, la voracità (hungriness) di dati e informazioni, insaziabile per le effettive disponibilità dell’epoca, e la complicatezza (complicat- edness) dei modelli, tale da richiedere una esuberante capacità di calcolo e da frequentemente racchiuderne la logica in una impenetrabile black box. Ad essi, Lee aggiungeva la hypercomprehensiveness, ossia la pretesa di spiegare con tali modelli ogni aspetto e di servire ogni finalità, e l’ambizione di riprodurre con essi l’articolata complessità del reale. Infine, ma non da meno, ai modelli Lee imputava una inaccettabile grossness, ovvero li riconosceva capaci di fornire solo risultati grossolani, dotati di un livello di dettaglio assai modesto, nonché, in conseguenza, fisiologica- mente insensibili nei riguardi degli aspetti inerenti alla morfologia dell’insediamento. In altri termini, per Douglass Lee i modelli erano fatti per operare su scala sovraurbana e per fornire risultati interessanti unicamente la maglia larga della struttura insediativa: incapaci a focalizzare l’attenzione su contesti insediativi di livello microterritoriale e, men che meno, di riprodurre e dar conto di fenomeni attinenti la loro morfologia.
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