“E chisto è ‘o punto”, per Eduardo, restituire alle parole il proprio colore, così come alle cose e ai gesti, resistere all’omologazione delle lingue che genera automatismo e imbroglio, caos travestito da ordine, bla bla di “gente che parla cumme fosse muta”, quando il “pittore” scenico o sociale non riconosce, impone, è Potere con la “p” maiuscola. Il suo è, dunque, un “teatro di contraddizione”, che incorpora (anzi ha nel DNA napoletano) il variopinto linguaggio della scena per innovarlo dall’interno, agendo da diritto e da rovescio sui prodotti artistici della nuova drammaturgia e della nuova recitazione. Il fenomeno emerge fin dagli anni Trenta, del mitico “blocco” I De Filippo; anni di sperimentazione laboratoriale, di continuità-discontinuità con la famiglia-compagnia d’origine, da cui prendere le distanze per fondersi nell’organismo della Compagnia Umoristica. Sono gli anni in cui il “sillabario” ereditato da Scarpetta padre, combinandosi secondo situazioni e personaggi, diventa senza provocazioni apparenti un contraltare all’“antiligua recitativa” (Claudio Meldolesi) che tendeva a uniformare, con il colore “grigio scuro” imposto dalla cultura di regime, il panorama dei nostri palcoscenici. Ma il fratello maggiore più inquieto (e attratto anche da Pirandello) comincia già a sperimentare, negli ambigui “giorni pari”, quella tecnica dell’”affabulazione” e dei “silenzi”, che diventerà fondamentale nel Teatro di Eduardo con Titina, dopo la traumatica fuga del solista della comicità Peppino. Dalla metà degli anni Quaranta in poi quella tecnica, sostanziando la “trinità eretica” propriamente eduardiana – drammaturgia d’attore, mondo dialettale e teatro in lingua -, diventa l’elemento guida d’una contraddizione scenica diversa, ma sempre più evidente. Nei “giorni dispari”, là dove il rapporto fra individuo e società non si ricostituisce, come la sospensione finale di Napoli milionaria! aveva lasciato sperare, prevalgono nell’arte della recitazione e della commedia del Grande Giuocoliero i monologhi, le pause, l’afasia ovvero il parlare senza le parole; perché nel suo romanzo teatrale, attraversato dal cuneo della comunicazione difficile, non solo dire ma anche non dire è fare. Grazie al colore emotivo delle parole, alla temperatura – calda o fredda – dei silenzi, i problemi del teatro del mondo s’incarnano o, se si preferisce, si denunciano. Il saggio ripercorre da una prospettiva linguistica specificamente teatrale la produzione eduardiana, così da mostrarne (sul piano drammaturgico e attoriale) il confermato impatto internazionale.

"Colore delle parole e temperatura dei silenzi nel teatro di Eduardo"

BARSOTTI, ANNA
2007-01-01

Abstract

“E chisto è ‘o punto”, per Eduardo, restituire alle parole il proprio colore, così come alle cose e ai gesti, resistere all’omologazione delle lingue che genera automatismo e imbroglio, caos travestito da ordine, bla bla di “gente che parla cumme fosse muta”, quando il “pittore” scenico o sociale non riconosce, impone, è Potere con la “p” maiuscola. Il suo è, dunque, un “teatro di contraddizione”, che incorpora (anzi ha nel DNA napoletano) il variopinto linguaggio della scena per innovarlo dall’interno, agendo da diritto e da rovescio sui prodotti artistici della nuova drammaturgia e della nuova recitazione. Il fenomeno emerge fin dagli anni Trenta, del mitico “blocco” I De Filippo; anni di sperimentazione laboratoriale, di continuità-discontinuità con la famiglia-compagnia d’origine, da cui prendere le distanze per fondersi nell’organismo della Compagnia Umoristica. Sono gli anni in cui il “sillabario” ereditato da Scarpetta padre, combinandosi secondo situazioni e personaggi, diventa senza provocazioni apparenti un contraltare all’“antiligua recitativa” (Claudio Meldolesi) che tendeva a uniformare, con il colore “grigio scuro” imposto dalla cultura di regime, il panorama dei nostri palcoscenici. Ma il fratello maggiore più inquieto (e attratto anche da Pirandello) comincia già a sperimentare, negli ambigui “giorni pari”, quella tecnica dell’”affabulazione” e dei “silenzi”, che diventerà fondamentale nel Teatro di Eduardo con Titina, dopo la traumatica fuga del solista della comicità Peppino. Dalla metà degli anni Quaranta in poi quella tecnica, sostanziando la “trinità eretica” propriamente eduardiana – drammaturgia d’attore, mondo dialettale e teatro in lingua -, diventa l’elemento guida d’una contraddizione scenica diversa, ma sempre più evidente. Nei “giorni dispari”, là dove il rapporto fra individuo e società non si ricostituisce, come la sospensione finale di Napoli milionaria! aveva lasciato sperare, prevalgono nell’arte della recitazione e della commedia del Grande Giuocoliero i monologhi, le pause, l’afasia ovvero il parlare senza le parole; perché nel suo romanzo teatrale, attraversato dal cuneo della comunicazione difficile, non solo dire ma anche non dire è fare. Grazie al colore emotivo delle parole, alla temperatura – calda o fredda – dei silenzi, i problemi del teatro del mondo s’incarnano o, se si preferisce, si denunciano. Il saggio ripercorre da una prospettiva linguistica specificamente teatrale la produzione eduardiana, così da mostrarne (sul piano drammaturgico e attoriale) il confermato impatto internazionale.
2007
Barsotti, Anna
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