L’opera di Jean de Coras su Martin Guerre, e l’attenta analisi socio-testuale che ne propone Zemon Davis in Il ritorno di MArtine Guerre, ci mettono in guardia da un rischio e una tentazione: quella di proiettare sul Cinquecento un concetto di «folklore» che gli intellettuali europei forgeranno piú di due secoli dopo. Solo col Romanticismo nascerà quello sguardo peculiare che coglie il mondo contadino non solo come «vile e di bassa condizione», ma come primitivo e originario, collettivo e indifferenziato, collocato in una diversa dimensione psicologica e temporale – per quanto in un rapporto privilegiato con lo Spirito. La vicenda di Martin Guerre ci mostra piuttosto una realtà rurale in cui agiscono soggetti (persone, «maschere») mosse da proprie rappresentazioni e valori, desideri, obiettivi economici, sociali, affettivi; in un contesto in cui le relazioni di egemonia e subalternità non sono da intendersi in modo dicotomico, ma come intreccio di diverse dimensioni che danno luogo a una pluralità di casi intermedi. Quando il libro di Zemon Davis è uscito, negli anni Ottanta, era sembrato naturale assimilarlo a un paradigma «folklorico» che godeva allora di grande fortuna – in una caratterizzazione marxista che era però ancora sottilmente infiltrata dallo sguardo romantico. Rileggerlo oggi può esser l’occasione, per l’antropologia come per la storiografia, per tornare ad affrontare il tema dell’autonomia del «popolare», facendo i conti con certi miti populisti in cui sono rimaste a lungo irretite.

Martin Guerre e il mondo contadino

Fabio Dei
2023-01-01

Abstract

L’opera di Jean de Coras su Martin Guerre, e l’attenta analisi socio-testuale che ne propone Zemon Davis in Il ritorno di MArtine Guerre, ci mettono in guardia da un rischio e una tentazione: quella di proiettare sul Cinquecento un concetto di «folklore» che gli intellettuali europei forgeranno piú di due secoli dopo. Solo col Romanticismo nascerà quello sguardo peculiare che coglie il mondo contadino non solo come «vile e di bassa condizione», ma come primitivo e originario, collettivo e indifferenziato, collocato in una diversa dimensione psicologica e temporale – per quanto in un rapporto privilegiato con lo Spirito. La vicenda di Martin Guerre ci mostra piuttosto una realtà rurale in cui agiscono soggetti (persone, «maschere») mosse da proprie rappresentazioni e valori, desideri, obiettivi economici, sociali, affettivi; in un contesto in cui le relazioni di egemonia e subalternità non sono da intendersi in modo dicotomico, ma come intreccio di diverse dimensioni che danno luogo a una pluralità di casi intermedi. Quando il libro di Zemon Davis è uscito, negli anni Ottanta, era sembrato naturale assimilarlo a un paradigma «folklorico» che godeva allora di grande fortuna – in una caratterizzazione marxista che era però ancora sottilmente infiltrata dallo sguardo romantico. Rileggerlo oggi può esser l’occasione, per l’antropologia come per la storiografia, per tornare ad affrontare il tema dell’autonomia del «popolare», facendo i conti con certi miti populisti in cui sono rimaste a lungo irretite.
2023
Dei, Fabio
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