Dopo il 1150 le due maggiori famiglie “principesche” toscane (Aldobrandeschi e Guidi) ricorsero a nuove forme di titolatura per distinguersi dal resto delle famiglie comitali della regione. Immediatamente, nel caso degli Aldobrandeschi, o dopo alcuni esperimenti che non ebbero seguito, nel caso dei Guidi, entrambe le dinastie ricorsero al titolo palatino, da solo (comes palatinus) o accompagnato da un riferimento all’ambito regionale (comes Tuscie palatinus). Non esercitarono, però, le funzioni e i diritti tipici dei comites sacri palatii della tradizione carolingia. La storiografia ha spiegato il titolo (solo onorifico) in termini di imitazione dell’ufficio carolingio. Questo era senz’altro uno dei messaggi che le due stirpi volevano trasmettere, usando quel titolo, in particolare allorché interagivano con l’autorità imperiale e con la nobiltà del regno. Il saggio, pur senza negare questo nesso, esplora un altro significato del titolo palatino, corrente in particolare nei rapporti tra “principi” e società cavalleresca toscana. Come si ricava anche da un’analisi dalla cronaca del Tolosano (Chronicon Faventinum), si può intendere il titolo palatino come un’allusione alla figura di Orlando e degli altri paladini di Francia, personaggi che proprio allora andavano acquistando centralità nell’immaginario delle aristocrazie cavalleresche toscane. La fortuna del titolo palatino andrà spiegata in primo luogo con la pluralità di significati che, nel dialogo politico con i vari interlocutori dei “principi”, esso di volta in volta poteva assumere: allusione all’inserimento nella gerarchia degli uffici pubblici e nella nobiltà d’impero; ufficio noto al ceto dei giuristi; allusione alla figura di Orlando e al suo ruolo di primus inter pares nei confronti dei cavalieri. Lo studio della titolatura, lungi dall’essere curiosità erudita, perciò, permette di avvicinarsi ai linguaggi politici usati dalle famiglie principesche per legittimarsi di fronte ai loro diversi interlocutori, e getta un fascio di luce sul sistema di valori e sugli orizzonti culturali del ceto cavalleresco rurale toscano.Dopo il 1150 le due maggiori famiglie “principesche” toscane (Aldobrandeschi e Guidi) ricorsero a nuove forme di titolatura per distinguersi dal resto delle famiglie comitali della regione. Immediatamente, nel caso degli Aldobrandeschi, o dopo alcuni esperimenti che non ebbero seguito, nel caso dei Guidi, entrambe le dinastie ricorsero al titolo palatino, da solo (comes palatinus) o accompagnato da un riferimento all’ambito regionale (comes Tuscie palatinus). Non esercitarono, però, le funzioni e i diritti tipici dei comites sacri palatii della tradizione carolingia. La storiografia ha spiegato il titolo (solo onorifico) in termini di imitazione dell’ufficio carolingio. Questo era senz’altro uno dei messaggi che le due stirpi volevano trasmettere, usando quel titolo, in particolare allorché interagivano con l’autorità imperiale e con la nobiltà del regno. Il saggio, pur senza negare questo nesso, esplora un altro significato del titolo palatino, corrente in particolare nei rapporti tra “principi” e società cavalleresca toscana. Come si ricava anche da un’analisi dalla cronaca del Tolosano (Chronicon Faventinum), si può intendere il titolo palatino come un’allusione alla figura di Orlando e degli altri paladini di Francia, personaggi che proprio allora andavano acquistando centralità nell’immaginario delle aristocrazie cavalleresche toscane. La fortuna del titolo palatino andrà spiegata in primo luogo con la pluralità di significati che, nel dialogo politico con i vari interlocutori dei “principi”, esso di volta in volta poteva assumere: allusione all’inserimento nella gerarchia degli uffici pubblici e nella nobiltà d’impero; ufficio noto al ceto dei giuristi; allusione alla figura di Orlando e al suo ruolo di primus inter pares nei confronti dei cavalieri. Lo studio della titolatura, lungi dall’essere curiosità erudita, perciò, permette di avvicinarsi ai linguaggi politici usati dalle famiglie principesche per legittimarsi di fronte ai loro diversi interlocutori, e getta un fascio di luce sul sistema di valori e sugli orizzonti culturali del ceto cavalleresco rurale toscano.

Comites palatini / paladini: ipotesi sulle forme di legittimazione del principato dei Guidi

COLLAVINI, SIMONE MARIA
2008-01-01

Abstract

Dopo il 1150 le due maggiori famiglie “principesche” toscane (Aldobrandeschi e Guidi) ricorsero a nuove forme di titolatura per distinguersi dal resto delle famiglie comitali della regione. Immediatamente, nel caso degli Aldobrandeschi, o dopo alcuni esperimenti che non ebbero seguito, nel caso dei Guidi, entrambe le dinastie ricorsero al titolo palatino, da solo (comes palatinus) o accompagnato da un riferimento all’ambito regionale (comes Tuscie palatinus). Non esercitarono, però, le funzioni e i diritti tipici dei comites sacri palatii della tradizione carolingia. La storiografia ha spiegato il titolo (solo onorifico) in termini di imitazione dell’ufficio carolingio. Questo era senz’altro uno dei messaggi che le due stirpi volevano trasmettere, usando quel titolo, in particolare allorché interagivano con l’autorità imperiale e con la nobiltà del regno. Il saggio, pur senza negare questo nesso, esplora un altro significato del titolo palatino, corrente in particolare nei rapporti tra “principi” e società cavalleresca toscana. Come si ricava anche da un’analisi dalla cronaca del Tolosano (Chronicon Faventinum), si può intendere il titolo palatino come un’allusione alla figura di Orlando e degli altri paladini di Francia, personaggi che proprio allora andavano acquistando centralità nell’immaginario delle aristocrazie cavalleresche toscane. La fortuna del titolo palatino andrà spiegata in primo luogo con la pluralità di significati che, nel dialogo politico con i vari interlocutori dei “principi”, esso di volta in volta poteva assumere: allusione all’inserimento nella gerarchia degli uffici pubblici e nella nobiltà d’impero; ufficio noto al ceto dei giuristi; allusione alla figura di Orlando e al suo ruolo di primus inter pares nei confronti dei cavalieri. Lo studio della titolatura, lungi dall’essere curiosità erudita, perciò, permette di avvicinarsi ai linguaggi politici usati dalle famiglie principesche per legittimarsi di fronte ai loro diversi interlocutori, e getta un fascio di luce sul sistema di valori e sugli orizzonti culturali del ceto cavalleresco rurale toscano.Dopo il 1150 le due maggiori famiglie “principesche” toscane (Aldobrandeschi e Guidi) ricorsero a nuove forme di titolatura per distinguersi dal resto delle famiglie comitali della regione. Immediatamente, nel caso degli Aldobrandeschi, o dopo alcuni esperimenti che non ebbero seguito, nel caso dei Guidi, entrambe le dinastie ricorsero al titolo palatino, da solo (comes palatinus) o accompagnato da un riferimento all’ambito regionale (comes Tuscie palatinus). Non esercitarono, però, le funzioni e i diritti tipici dei comites sacri palatii della tradizione carolingia. La storiografia ha spiegato il titolo (solo onorifico) in termini di imitazione dell’ufficio carolingio. Questo era senz’altro uno dei messaggi che le due stirpi volevano trasmettere, usando quel titolo, in particolare allorché interagivano con l’autorità imperiale e con la nobiltà del regno. Il saggio, pur senza negare questo nesso, esplora un altro significato del titolo palatino, corrente in particolare nei rapporti tra “principi” e società cavalleresca toscana. Come si ricava anche da un’analisi dalla cronaca del Tolosano (Chronicon Faventinum), si può intendere il titolo palatino come un’allusione alla figura di Orlando e degli altri paladini di Francia, personaggi che proprio allora andavano acquistando centralità nell’immaginario delle aristocrazie cavalleresche toscane. La fortuna del titolo palatino andrà spiegata in primo luogo con la pluralità di significati che, nel dialogo politico con i vari interlocutori dei “principi”, esso di volta in volta poteva assumere: allusione all’inserimento nella gerarchia degli uffici pubblici e nella nobiltà d’impero; ufficio noto al ceto dei giuristi; allusione alla figura di Orlando e al suo ruolo di primus inter pares nei confronti dei cavalieri. Lo studio della titolatura, lungi dall’essere curiosità erudita, perciò, permette di avvicinarsi ai linguaggi politici usati dalle famiglie principesche per legittimarsi di fronte ai loro diversi interlocutori, e getta un fascio di luce sul sistema di valori e sugli orizzonti culturali del ceto cavalleresco rurale toscano.
2008
Collavini, SIMONE MARIA
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11568/120998
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