Attraverso il confronto tra due opere che rappresentano nel panorama italiano, ma d’impatto europeo, il dramma del passaggio dall’Otto al Novecento – “La Lupa” di Verga e “La figlia di Iorio” di d’Annunzio – si rileva l’emergenza dell’indicibile, d’una teatralità che risiede principalmente nel non-detto contaminando temi e linguaggio. La scelta di queste due opere, la prima andata in scena nel 1895, con esiti disomogenei, la seconda nel 1904, trionfalmente accolta da pubblico e critica, accosta due drammaturghi apparentemente distanti l’uno dall’altro: Verga fautore, con “Cavalleria rusticana”, del verismo a teatro (ma d’un verismo del Sud e di marca tragica); d’Annunzio, a partire almeno da “La città morta”, poeta drammatico della “nuova tragedia moderna”. Eppure, proprio le due opere prescelte si prestano al confronto: non solo per affinità tematiche (entrambi drammi di lussuria e di sangue) e d’ambiente (l’idea della “tragedia agreste”, secondo una dichiarazione dannunziana, trae origine anche dagli esempi verghiani). “La Lupa” è pièce anomala sia nell’ambito della produzione del suo autore sia in quello del verismo drammatico; nata da una novella di “Vita dei campi”, come “Cavalleria”, è l’unico frutto d’una gestazione dapprima melodrammatica, dal progetto d’un libretto d’opera poi abbandonato da Puccini. Fuoriesce inoltre dal cosiddetto “decennio verista” del nostro teatro, collocandosi negli anni Novanta dell’Ottocento (caratterizzati da altro clima culturale, anche sul versante europeo, rispetto a quello naturalista); al punto che, proprio nell’anno successivo al suo debutto, nel 1896 vede la luce a Parigi il primo “Sogno” dannunziano. “La figlia di Iorio”, d’altra parte, oltre a rappresentare – come già detto – il primo indiscusso successo del Vate nazionale sulle scene, introduce per la prima volta usi e costumi della nativa terra d’Abruzzo (e quindi la memoria delle proprie radici regionali) nel progetto della tragedia moderna e mediterranea. Causa della catastrofe, in entrambi i drammi, una violazione passionale, che denuncia ascendenze arcaiche (oltre la più nota vicenda di Edipo), sostenute dall’ambiente agreste in cui tale violazione si colloca. Alla base, un’infrazione sessuale nella prospettiva dell’organizzazione sociale raffigurata: un’infrazione incestuosa ma nell’ottica, appunto, sociale e culturale, non in quella della violazione di un rapporto di sangue. Nel dramma di “La Lupa” non c’è sangue in comune fra suocera e genero, ma un “parentato” ed uno scambio di ruoli fra madre e figlia: la madre seduce lo sposo della figlia, alla quale ruba il posto (e il ruolo). Ma anche in “La figlia di Iorio” si tratta di un “incesto ‘freddo’”; non ci sono legami di sangue fra Mila e Aligi, eppure “l’unione del figlio con la stessa donna del padre è assimilata all’incesto nell’ottica della cultura tribale arcaica” (Guidorizzi). Anche qui uno scambio di ruoli, fra padre e figlio, determina un conflitto, così come fra la madre e la figlia di “La Lupa”. Dove la contesa sempre più aspra fra la gnà Pina e Mara produce la catastrofe, il colpo d’ascia che recide il legame di Nanni con la suocera. L’azione cruciale di “La figlia di Iorio” è d’altra parte prodotta dal contrasto fra Lazaro e Aligi, che condurrà anch’esso ad un colpo d’ascia, al parricidio. Che si tratti della lotta per un possesso (della stessa donna) non attuato non inficia la derivazione dall’archetipo; e comunque l’irruzione del padre in scena segue quel “bacio” tra il figlio e Mila che poi lei vorrà esorcizzare, negandone la carnalità nella preghiera alla Vergine. L’indicibilità non riguarda, in “La Lupa” e in “La figlia di Iorio”, soltanto la natura della violazione, ma è significativo il rapporto fra le due scene in cui l’infrazione si attua (la caduta di Nanni nelle grinfie della Lupa) o si sfiora (il bacio fatale fra Mila e Aligi). Inserite entrambe in uno spazio naturale che consente già a Verga (e più nella novella) di esprimere un paesaggio-stato d’animo, isolate dal “silenzio” circostante, culminano in un’azione muta che le assimila, attraverso le didascalie, perché al linguaggio delle parole si sostituisce quello dei gesti e degli sguardi. Dal confronto fra i due drammi emerge inoltre come le verità indicibili siano legate al campo semantico delle motivazioni che stanno dietro ai fatti. Così in “La Lupa” risulta ambiguo (anche e soprattutto al di là delle parole dette) il motivo per cui la madre favorisce il matrimonio fra l’amato e la propria figlia; tanto che il conflitto madre-figlia si manifesta, fin quasi alla fine, in un sordo gioco di reticenze e di allusioni, da parte di Mara, al “sospetto atroce”. Come risulteranno indicibili, e quindi ambigue, le motivazioni profonde della passione di Mila, meretrice e santa, per il pastore Aligi. L’effetto di ambiguità suscitato da questa prospettiva critica trova riscontro, nella seconda parte del saggio, in un’altra specie di lettura, della sola "Figlia di Iorio", che anziché procedere dal testo alla scena reale s’orienta verso una spettacolarità virtuale, giustificata metodologicamente dalla partecipazione della Duse alla creazione dell’opera (che l’attrice Divina non reciterà mai). Si ripercorre dunque il testo nella visuale d’una influenza dusiana, almeno implicita, nella formazione del personaggio di Mila; l’esame delle didascalie esplicite ed implicite (scovate nelle battute) conduce a riscoprire tracce dei codici mimici, gestuali, prossemici e fonici d’una attrice in crisi di rapporto con il suo autore e perciò in bilico fra stilemi recitativi pre-dannunziani (che riemergono) e post-dannunziani (che incominciano a manifestarsi).

"L'indicibile delle passioni nel teatro da Verga a d'Annunzio ('La Lupa' e 'La figlia di Iorio')"

BARSOTTI, ANNA
2009-01-01

Abstract

Attraverso il confronto tra due opere che rappresentano nel panorama italiano, ma d’impatto europeo, il dramma del passaggio dall’Otto al Novecento – “La Lupa” di Verga e “La figlia di Iorio” di d’Annunzio – si rileva l’emergenza dell’indicibile, d’una teatralità che risiede principalmente nel non-detto contaminando temi e linguaggio. La scelta di queste due opere, la prima andata in scena nel 1895, con esiti disomogenei, la seconda nel 1904, trionfalmente accolta da pubblico e critica, accosta due drammaturghi apparentemente distanti l’uno dall’altro: Verga fautore, con “Cavalleria rusticana”, del verismo a teatro (ma d’un verismo del Sud e di marca tragica); d’Annunzio, a partire almeno da “La città morta”, poeta drammatico della “nuova tragedia moderna”. Eppure, proprio le due opere prescelte si prestano al confronto: non solo per affinità tematiche (entrambi drammi di lussuria e di sangue) e d’ambiente (l’idea della “tragedia agreste”, secondo una dichiarazione dannunziana, trae origine anche dagli esempi verghiani). “La Lupa” è pièce anomala sia nell’ambito della produzione del suo autore sia in quello del verismo drammatico; nata da una novella di “Vita dei campi”, come “Cavalleria”, è l’unico frutto d’una gestazione dapprima melodrammatica, dal progetto d’un libretto d’opera poi abbandonato da Puccini. Fuoriesce inoltre dal cosiddetto “decennio verista” del nostro teatro, collocandosi negli anni Novanta dell’Ottocento (caratterizzati da altro clima culturale, anche sul versante europeo, rispetto a quello naturalista); al punto che, proprio nell’anno successivo al suo debutto, nel 1896 vede la luce a Parigi il primo “Sogno” dannunziano. “La figlia di Iorio”, d’altra parte, oltre a rappresentare – come già detto – il primo indiscusso successo del Vate nazionale sulle scene, introduce per la prima volta usi e costumi della nativa terra d’Abruzzo (e quindi la memoria delle proprie radici regionali) nel progetto della tragedia moderna e mediterranea. Causa della catastrofe, in entrambi i drammi, una violazione passionale, che denuncia ascendenze arcaiche (oltre la più nota vicenda di Edipo), sostenute dall’ambiente agreste in cui tale violazione si colloca. Alla base, un’infrazione sessuale nella prospettiva dell’organizzazione sociale raffigurata: un’infrazione incestuosa ma nell’ottica, appunto, sociale e culturale, non in quella della violazione di un rapporto di sangue. Nel dramma di “La Lupa” non c’è sangue in comune fra suocera e genero, ma un “parentato” ed uno scambio di ruoli fra madre e figlia: la madre seduce lo sposo della figlia, alla quale ruba il posto (e il ruolo). Ma anche in “La figlia di Iorio” si tratta di un “incesto ‘freddo’”; non ci sono legami di sangue fra Mila e Aligi, eppure “l’unione del figlio con la stessa donna del padre è assimilata all’incesto nell’ottica della cultura tribale arcaica” (Guidorizzi). Anche qui uno scambio di ruoli, fra padre e figlio, determina un conflitto, così come fra la madre e la figlia di “La Lupa”. Dove la contesa sempre più aspra fra la gnà Pina e Mara produce la catastrofe, il colpo d’ascia che recide il legame di Nanni con la suocera. L’azione cruciale di “La figlia di Iorio” è d’altra parte prodotta dal contrasto fra Lazaro e Aligi, che condurrà anch’esso ad un colpo d’ascia, al parricidio. Che si tratti della lotta per un possesso (della stessa donna) non attuato non inficia la derivazione dall’archetipo; e comunque l’irruzione del padre in scena segue quel “bacio” tra il figlio e Mila che poi lei vorrà esorcizzare, negandone la carnalità nella preghiera alla Vergine. L’indicibilità non riguarda, in “La Lupa” e in “La figlia di Iorio”, soltanto la natura della violazione, ma è significativo il rapporto fra le due scene in cui l’infrazione si attua (la caduta di Nanni nelle grinfie della Lupa) o si sfiora (il bacio fatale fra Mila e Aligi). Inserite entrambe in uno spazio naturale che consente già a Verga (e più nella novella) di esprimere un paesaggio-stato d’animo, isolate dal “silenzio” circostante, culminano in un’azione muta che le assimila, attraverso le didascalie, perché al linguaggio delle parole si sostituisce quello dei gesti e degli sguardi. Dal confronto fra i due drammi emerge inoltre come le verità indicibili siano legate al campo semantico delle motivazioni che stanno dietro ai fatti. Così in “La Lupa” risulta ambiguo (anche e soprattutto al di là delle parole dette) il motivo per cui la madre favorisce il matrimonio fra l’amato e la propria figlia; tanto che il conflitto madre-figlia si manifesta, fin quasi alla fine, in un sordo gioco di reticenze e di allusioni, da parte di Mara, al “sospetto atroce”. Come risulteranno indicibili, e quindi ambigue, le motivazioni profonde della passione di Mila, meretrice e santa, per il pastore Aligi. L’effetto di ambiguità suscitato da questa prospettiva critica trova riscontro, nella seconda parte del saggio, in un’altra specie di lettura, della sola "Figlia di Iorio", che anziché procedere dal testo alla scena reale s’orienta verso una spettacolarità virtuale, giustificata metodologicamente dalla partecipazione della Duse alla creazione dell’opera (che l’attrice Divina non reciterà mai). Si ripercorre dunque il testo nella visuale d’una influenza dusiana, almeno implicita, nella formazione del personaggio di Mila; l’esame delle didascalie esplicite ed implicite (scovate nelle battute) conduce a riscoprire tracce dei codici mimici, gestuali, prossemici e fonici d’una attrice in crisi di rapporto con il suo autore e perciò in bilico fra stilemi recitativi pre-dannunziani (che riemergono) e post-dannunziani (che incominciano a manifestarsi).
2009
Barsotti, Anna
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