Il saggio condensa anni di ricerche evidenziando un aspetto della produzione di Alfieri e della sua personalità trascurato dalla critica: quello dell’attore-autore, capocomico e direttore artistico di compagnia, viaggiatore instancabile e spettatore di teatri europei. Se passare il limite fra la poesia e la scena attraverso «mezzi» quali i «soliloqui» e la «perplessità» costituisce il nocciolo della poetica drammaturgica dell’Astigiano, e la nuova qualità scenica delle sue tragedie, ne possiamo parlare anche come del teatro che ha accompagnato il suo atto di ‘fare’ tragedie, teatro da cui nasce il testo, e considerare la rappresentazione romana dell’ “Antigone” (1782, nel ‘teatrino’ del palazzo di Spagna, egli stesso nella parte di Creonte) come una verifica in corso d’opera. Ma la vera e propria svolta verso l’esperimento scenico si deve far risalire agli ultimi anni toscani dell’artista, al teatro che Alfieri ha potuto ‘fare’ rappresentando le tragedie composte e già pubblicate. Se nella Risposta al Calzabigi egli ribadisce il «puro piacere ideale» nell’immaginare i suoi fantasmi di personaggi interpretati da attori futuribili per fantasmi di spettatori, gli «Italiani» che verranno (quando lui non ci sarà più), dal 1793 al 1795 l’autore sentirà il bisogno non più rinviabile d’improvvisarsi attore e regista delle sue tragedie; avrebbe cercato di mettere in pratica i criteri di recitazione esposti nel “Parere sull’arte comica in Italia”, con una compagnia mista di attori professionisti e di dilettanti, come scrive già alla fine del 1792: "Vorrei essere giovane e senza guai, e mettermi io a levar una compagnia in Toscana, e reciterei anch'io, e mi lusingherei di poter affrettare alquanto i progressi di questa arte" (“Epistolario”), l’arte appunto «difficilissima del recitare». Nel 1796 confesserà all’ Albergati Capacelli di aver ormai rinunziato all’impresa, ma nella “Vita” ne riparla con nostalgia: "se avessi avuto più gioventù, […] denari tempo e salute da sprecare, avrei in tre o quattr’anni potuto formare una compagnia di tragici, se non ottima, almeno assai e del tutto diversa da quelle che in Italia si van chiamando tali, e ben diretta su la via del vero e dell’ottimo" (“Vita scritta da esso”, Epoca IV, cap. XXIII). Proprio attraverso l’ “Epistolario” e la “Vita”, è possibile ricostruire alcune tappe di quell’esperimento legato specialmente alla passione alfieriana per la pratica spettacolare dei propri lavori, un esercizio di interpretazione che, nonostante sia da lui definito "balocco", dovette implicare fatica e impegno. Luoghi dell’esperienza di Alfieri drammaturgo-attore-capocomico e, se non regista, almeno direttore artistico, sono l’appartamento che egli abitò dopo aver lasciato l’albergo dell’Aquila, a Firenze, o la «casa altrui», dove si colloca forse la "cameretta quadrilunga" del debutto del “Saul” nel 1793; poi la casa Gianfigliazzi sui Lungarni. Ma infine anche «in Pisa in casa particolare di Signori» (i Roncioni), dove «con un'altra compagnia di dilettanti» rispetto alla propria, o alle proprie (perché nel corso degli anni i suoi attori mutano), coronerà nel 1795 la serie di esperimenti, interpretando il “Saul”: «ebbi la pueril vanagloria di andarvi, e là recitai per una sola volta e per l’ultima la mia diletta parte di Saul; e là rimasi, quanto al teatro, morto da Re» (“Vita scritta da esso”, Epoca IV, cap. XXIII). Attraverso i difficili o ambigui rapporti con i comici del tempo, e con i dilettanti che la sua “terribile” drammaturgia avrebbe avviato al professionismo, quel teatro diventa, sulla scena dell’Ottocento, banco di prova per “grandi attori”.

"Alfieri auteur-acteur à l'épreuve de la mise en scène"

BARSOTTI, ANNA
2010-01-01

Abstract

Il saggio condensa anni di ricerche evidenziando un aspetto della produzione di Alfieri e della sua personalità trascurato dalla critica: quello dell’attore-autore, capocomico e direttore artistico di compagnia, viaggiatore instancabile e spettatore di teatri europei. Se passare il limite fra la poesia e la scena attraverso «mezzi» quali i «soliloqui» e la «perplessità» costituisce il nocciolo della poetica drammaturgica dell’Astigiano, e la nuova qualità scenica delle sue tragedie, ne possiamo parlare anche come del teatro che ha accompagnato il suo atto di ‘fare’ tragedie, teatro da cui nasce il testo, e considerare la rappresentazione romana dell’ “Antigone” (1782, nel ‘teatrino’ del palazzo di Spagna, egli stesso nella parte di Creonte) come una verifica in corso d’opera. Ma la vera e propria svolta verso l’esperimento scenico si deve far risalire agli ultimi anni toscani dell’artista, al teatro che Alfieri ha potuto ‘fare’ rappresentando le tragedie composte e già pubblicate. Se nella Risposta al Calzabigi egli ribadisce il «puro piacere ideale» nell’immaginare i suoi fantasmi di personaggi interpretati da attori futuribili per fantasmi di spettatori, gli «Italiani» che verranno (quando lui non ci sarà più), dal 1793 al 1795 l’autore sentirà il bisogno non più rinviabile d’improvvisarsi attore e regista delle sue tragedie; avrebbe cercato di mettere in pratica i criteri di recitazione esposti nel “Parere sull’arte comica in Italia”, con una compagnia mista di attori professionisti e di dilettanti, come scrive già alla fine del 1792: "Vorrei essere giovane e senza guai, e mettermi io a levar una compagnia in Toscana, e reciterei anch'io, e mi lusingherei di poter affrettare alquanto i progressi di questa arte" (“Epistolario”), l’arte appunto «difficilissima del recitare». Nel 1796 confesserà all’ Albergati Capacelli di aver ormai rinunziato all’impresa, ma nella “Vita” ne riparla con nostalgia: "se avessi avuto più gioventù, […] denari tempo e salute da sprecare, avrei in tre o quattr’anni potuto formare una compagnia di tragici, se non ottima, almeno assai e del tutto diversa da quelle che in Italia si van chiamando tali, e ben diretta su la via del vero e dell’ottimo" (“Vita scritta da esso”, Epoca IV, cap. XXIII). Proprio attraverso l’ “Epistolario” e la “Vita”, è possibile ricostruire alcune tappe di quell’esperimento legato specialmente alla passione alfieriana per la pratica spettacolare dei propri lavori, un esercizio di interpretazione che, nonostante sia da lui definito "balocco", dovette implicare fatica e impegno. Luoghi dell’esperienza di Alfieri drammaturgo-attore-capocomico e, se non regista, almeno direttore artistico, sono l’appartamento che egli abitò dopo aver lasciato l’albergo dell’Aquila, a Firenze, o la «casa altrui», dove si colloca forse la "cameretta quadrilunga" del debutto del “Saul” nel 1793; poi la casa Gianfigliazzi sui Lungarni. Ma infine anche «in Pisa in casa particolare di Signori» (i Roncioni), dove «con un'altra compagnia di dilettanti» rispetto alla propria, o alle proprie (perché nel corso degli anni i suoi attori mutano), coronerà nel 1795 la serie di esperimenti, interpretando il “Saul”: «ebbi la pueril vanagloria di andarvi, e là recitai per una sola volta e per l’ultima la mia diletta parte di Saul; e là rimasi, quanto al teatro, morto da Re» (“Vita scritta da esso”, Epoca IV, cap. XXIII). Attraverso i difficili o ambigui rapporti con i comici del tempo, e con i dilettanti che la sua “terribile” drammaturgia avrebbe avviato al professionismo, quel teatro diventa, sulla scena dell’Ottocento, banco di prova per “grandi attori”.
2010
Barsotti, Anna
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11568/141672
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