Viene considerato da De Astis (1937) originario della toscana, probabilmente a seguito del processo di domesticazione, anche se mancano sicure conferme scientifiche. Breviglieri e Casini (1964) ne hanno dato una dettagliata descrizione sostenendo che intorno a questo vitigno si è fatta un po’ di confusione, dovuta forse al fatto che da un paio di secoli, cioè da quando il Trinci (1726) illustrò i vitigni coltivati in Toscana, si è compreso fra le varietà del Canaiolo un “Canaiolo Colore” che deve essere altra cosa. Il Gallesio, descrive il «Colorino» in maniera diversa dalla “Canaiola”, dicendo che il primo ha grappoli ed acini piccoli, nonché spargoli, a buccia nera, molto ricca di materia colorante, «sicchè viene usata per dare colore al vino». Anche Di Rovasenda parla di un «Colorino» (diverso dal «Colore») con acini minuti. Nella monografia sulla “Viticoltura del Fiorentino” il Fonseca parla di un vitigno «Colore» (sin. «Colorino», “Uva Colore”, “Colore Canaiolo», “Canino”) che non corrisponde al “Colorino del Valdarno” descritto da Breviglieri e Casini (1964), i quali riferiscono che in Toscana oltre a questo vitigno che ha foglie e tralci colorati in rosso, si coltiva un secondo tipo che ha germogli non rossastri e l'uva un po' meno colorata. Il nome di questo vitigno che è seguito dal suffisso della probabile zona di origine o di maggiore diffusione è legato al fatto che ha una buccia molto ricca di colore. Per questo motivo è accaduto che sono stati denominati Colorino (Colorino di Pisa, Colorino Americano, Colorino di Lucca, Colorino del Valdarno) anche altri vitigni che avevano in comune la ricchezza antocianina ma erano morfologicamente e geneticamente diversi, come evidenziato da Pisani et al., (1997). I vitigni Abrostine e Abrusco, iscritti al Registro Nazionale delle Varietà di Vite presentano caratteristiche abbastanza simili al Colorino, e recenti indagini hanno evidenziato che il profilo molecolare di alcuni cloni di Colorino è identico a quello dell’Abrusco (Ducci et al., 2012).

Colorino

SCALABRELLI, GIANCARLO;D'ONOFRIO, CLAUDIO
2015-01-01

Abstract

Viene considerato da De Astis (1937) originario della toscana, probabilmente a seguito del processo di domesticazione, anche se mancano sicure conferme scientifiche. Breviglieri e Casini (1964) ne hanno dato una dettagliata descrizione sostenendo che intorno a questo vitigno si è fatta un po’ di confusione, dovuta forse al fatto che da un paio di secoli, cioè da quando il Trinci (1726) illustrò i vitigni coltivati in Toscana, si è compreso fra le varietà del Canaiolo un “Canaiolo Colore” che deve essere altra cosa. Il Gallesio, descrive il «Colorino» in maniera diversa dalla “Canaiola”, dicendo che il primo ha grappoli ed acini piccoli, nonché spargoli, a buccia nera, molto ricca di materia colorante, «sicchè viene usata per dare colore al vino». Anche Di Rovasenda parla di un «Colorino» (diverso dal «Colore») con acini minuti. Nella monografia sulla “Viticoltura del Fiorentino” il Fonseca parla di un vitigno «Colore» (sin. «Colorino», “Uva Colore”, “Colore Canaiolo», “Canino”) che non corrisponde al “Colorino del Valdarno” descritto da Breviglieri e Casini (1964), i quali riferiscono che in Toscana oltre a questo vitigno che ha foglie e tralci colorati in rosso, si coltiva un secondo tipo che ha germogli non rossastri e l'uva un po' meno colorata. Il nome di questo vitigno che è seguito dal suffisso della probabile zona di origine o di maggiore diffusione è legato al fatto che ha una buccia molto ricca di colore. Per questo motivo è accaduto che sono stati denominati Colorino (Colorino di Pisa, Colorino Americano, Colorino di Lucca, Colorino del Valdarno) anche altri vitigni che avevano in comune la ricchezza antocianina ma erano morfologicamente e geneticamente diversi, come evidenziato da Pisani et al., (1997). I vitigni Abrostine e Abrusco, iscritti al Registro Nazionale delle Varietà di Vite presentano caratteristiche abbastanza simili al Colorino, e recenti indagini hanno evidenziato che il profilo molecolare di alcuni cloni di Colorino è identico a quello dell’Abrusco (Ducci et al., 2012).
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