Il presente contributo intende avviare una riflessione sulle professioni sociali nella cornice di quella che, forse con troppa sollecitudine, viene definita “società della conoscenza”. Da lungo tempo, infatti, la letteratura sociologica si confronta con l’idea di Knowledge Society, espressione che circola ormai speditamente nei dibattiti fra politici, intellettuali ed esperti di vario genere attenti alle direzioni di sviluppo delle società contemporanee (Bell, 1973; Beniger, 1995; Castells, 2002; Drucker, 1969, 1979, 1993; Duff, 2000; Mattelart, 2002; Morin, 2012; Webster, 2006). Al termine del vertice europeo di Lisbona, nel marzo del 2000, divenne assolutamente chiara la volontà di puntare con fermezza sulla crescita economica, per avvicinare l’economia europea – accusata in più ambiti di rigidità e di scarsa competitività – alla più forte e dinamica economia statunitense. L’obiettivo fondamentale, il cuore della strategia, venne espresso in modo chiaro nelle conclusioni della Presidenza del Consiglio dell’Unione europea: «diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale». Un ambizioso programma che invitava, entro il 2010, gli Stati membri a raggiungere un tasso di occupazione del 70% e un tasso medio di crescita economica pari al 3% mediante interventi volti a: (1) migliorare le politiche in materia di società dell’informazione e di Ricerca e Sviluppo; (2) accelerare il processo di riforma strutturale ai fini della competitività e dell’innovazione; (3) modernizzare il modello socia-le, combattendo l’esclusione e investendo sul capitale umano; (4) sostenere il contesto economico sano e le prospettive di crescita favorevoli, attraverso l’applicazione di un’adeguata combinazione di politiche macroeconomiche. Il monitoraggio in itinere dello stato di avanzamento della Strategia di Lisbona ha messo in evidenza, nonostante i successi registrati in alcuni settori rilevanti, palesi difficoltà di crescita, di occupazione e di innovazione, in particolare nelle più grandi economie della zona euro, e la crisi economico-finanziaria in atto ha ulteriormente aggra-vato la situazione complessiva. Da qui il rilancio della Strategia “Europa 2020” che, in continuità con quanto proposto a Lisbona e come via d’uscita dalla crisi, conferma come ineludibile il percorso verso una società della conoscenza democratica e inclusiva. Le dichiarazioni di intenti contemplerebbero infatti un concreto sostegno nella direzione dell’inclusione sociale e, questo, anche attraverso iniziative volte a migliorare l’istruzione e la formazione . Nello specifico, le misure rivolte all’inclusione sociale mirano a potenziare l’integrazione di tutti all’interno della società mediante la promozione della piena partecipazione economica, sociale e culturale. In tal senso, le due categorie principali degli interventi del Fondo Sociale Europeo (FSE) con una parte legata all’inclusione sociale promuovono appunto l’assistenza diretta ai cittadini mediante percorsi completi di integrazione (orientamento e consulenza, formazione e istruzione, offerta di misure di ausilio all’occupazione) e la realizzazione di sistemi e strutture, con l’obiettivo primario di creare risposte più efficaci per i soggetti a rischio di esclusione eliminando le barriere sociali, migliorando i servizi o mutando l’atteggiamento della società e sensibilizzando in merito a tale problematica. Appare chiaro da questa breve premessa che, in un simile contesto, il ruolo delle professioni sociali – e in particolare di quelle che operano nel sistema pubblico di welfare – dovrebbe configurarsi come centrale e assolutamente strategico. Eppure, sembra che proprio queste professioni subiscano gli effetti più devastanti della crisi e del debito pubblico, scontando un deficit di riconoscimento istituzionale, riconducibile a paralleli processi di burocratizzazione, tecnicizzazione, proletarizzazione e precarizzazione . Può essere pertanto utile far luce sui principali aspetti che riguardano questa tendenza, a partire da un excursus teorico-analitico sulle professioni sociali che consenta di individuare le principali dinamiche e fornisca ulteriori coordinate per utili verifiche empiriche.

Le professioni sociali nella società della conoscenza tra crisi e mutamenti

PASTORE, GERARDO
2016-01-01

Abstract

Il presente contributo intende avviare una riflessione sulle professioni sociali nella cornice di quella che, forse con troppa sollecitudine, viene definita “società della conoscenza”. Da lungo tempo, infatti, la letteratura sociologica si confronta con l’idea di Knowledge Society, espressione che circola ormai speditamente nei dibattiti fra politici, intellettuali ed esperti di vario genere attenti alle direzioni di sviluppo delle società contemporanee (Bell, 1973; Beniger, 1995; Castells, 2002; Drucker, 1969, 1979, 1993; Duff, 2000; Mattelart, 2002; Morin, 2012; Webster, 2006). Al termine del vertice europeo di Lisbona, nel marzo del 2000, divenne assolutamente chiara la volontà di puntare con fermezza sulla crescita economica, per avvicinare l’economia europea – accusata in più ambiti di rigidità e di scarsa competitività – alla più forte e dinamica economia statunitense. L’obiettivo fondamentale, il cuore della strategia, venne espresso in modo chiaro nelle conclusioni della Presidenza del Consiglio dell’Unione europea: «diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale». Un ambizioso programma che invitava, entro il 2010, gli Stati membri a raggiungere un tasso di occupazione del 70% e un tasso medio di crescita economica pari al 3% mediante interventi volti a: (1) migliorare le politiche in materia di società dell’informazione e di Ricerca e Sviluppo; (2) accelerare il processo di riforma strutturale ai fini della competitività e dell’innovazione; (3) modernizzare il modello socia-le, combattendo l’esclusione e investendo sul capitale umano; (4) sostenere il contesto economico sano e le prospettive di crescita favorevoli, attraverso l’applicazione di un’adeguata combinazione di politiche macroeconomiche. Il monitoraggio in itinere dello stato di avanzamento della Strategia di Lisbona ha messo in evidenza, nonostante i successi registrati in alcuni settori rilevanti, palesi difficoltà di crescita, di occupazione e di innovazione, in particolare nelle più grandi economie della zona euro, e la crisi economico-finanziaria in atto ha ulteriormente aggra-vato la situazione complessiva. Da qui il rilancio della Strategia “Europa 2020” che, in continuità con quanto proposto a Lisbona e come via d’uscita dalla crisi, conferma come ineludibile il percorso verso una società della conoscenza democratica e inclusiva. Le dichiarazioni di intenti contemplerebbero infatti un concreto sostegno nella direzione dell’inclusione sociale e, questo, anche attraverso iniziative volte a migliorare l’istruzione e la formazione . Nello specifico, le misure rivolte all’inclusione sociale mirano a potenziare l’integrazione di tutti all’interno della società mediante la promozione della piena partecipazione economica, sociale e culturale. In tal senso, le due categorie principali degli interventi del Fondo Sociale Europeo (FSE) con una parte legata all’inclusione sociale promuovono appunto l’assistenza diretta ai cittadini mediante percorsi completi di integrazione (orientamento e consulenza, formazione e istruzione, offerta di misure di ausilio all’occupazione) e la realizzazione di sistemi e strutture, con l’obiettivo primario di creare risposte più efficaci per i soggetti a rischio di esclusione eliminando le barriere sociali, migliorando i servizi o mutando l’atteggiamento della società e sensibilizzando in merito a tale problematica. Appare chiaro da questa breve premessa che, in un simile contesto, il ruolo delle professioni sociali – e in particolare di quelle che operano nel sistema pubblico di welfare – dovrebbe configurarsi come centrale e assolutamente strategico. Eppure, sembra che proprio queste professioni subiscano gli effetti più devastanti della crisi e del debito pubblico, scontando un deficit di riconoscimento istituzionale, riconducibile a paralleli processi di burocratizzazione, tecnicizzazione, proletarizzazione e precarizzazione . Può essere pertanto utile far luce sui principali aspetti che riguardano questa tendenza, a partire da un excursus teorico-analitico sulle professioni sociali che consenta di individuare le principali dinamiche e fornisca ulteriori coordinate per utili verifiche empiriche.
2016
Pastore, Gerardo
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11568/808649
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