Il contributo di compone di due parti, distinte, ma complementari. La prima di queste parti e' dedicata al diritto all'istruzione come diritto umano, mentre la seconda al riconoscimento dei titoli e l'accesso alle professioni. L’istruzione non solo è un diritto umano di per sé, ma costituisce altresi' un mezzo indispensabile per realizzare altri diritti umani. È considerata come il “veicolo primario” con cui persone emarginate sotto il profilo economico e sociale possono uscire dalla povertà ed ottenere i mezzi per partecipare pienamente alla vita della comunità cui appartengono. Viene ritenuta fondamentale per migliorare le condizioni di vita delle donne, per salvaguardare i minori dallo sfruttamento sia lavorativo che sessuale, per promuovere i diritti umani e la democrazia, per proteggere l’ambiente e per controllare la crescita della popolazione. È descritta come uno dei migliori investimenti (anche sul piano finanziario) che gli Stati possono effettuare. In materia di migranti tale tema assume una valenza specifica, nella misura in cui l’istruzione costituisce una pietra miliare del processo di integrazione dei migranti stessi. Fra le funzioni che, in generale, l’istruzione ha vi è anche quella di fornire agli studenti le conoscenze, le abilità e le competenze di cui avranno bisogno nella vita lavorativa. É attraverso il rilascio di diplomi ed altri titoli che viene certificata l’assunzione di tali conoscenze, abilità e competenze. In relazione al fenomeno migratorio, inoltre, esiste una questione specifica, consistente nel riconoscimento nello Stato di accoglienza dei diplomi e più in generale dei titoli ottenuti nello Stato di origine (o comunque in uno Stato diverso da quello di accoglienza). Problema che si pone con particolare rilievo per le c.d. “professioni regolamentate”, ovvero quelle attività, o insieme di attività professionali, l'accesso alle quali e il cui esercizio, o una delle cui modalità di esercizio, sono subordinati direttamente o indirettamente, in forza di norme legislative, regolamentari o amministrative, al possesso di determinate qualifiche professionali. Nel contributo sono esaminate le soluzioni che il diritto internazionale, tanto a carattere universale quanto a carattere regionale europeo (incluso pertanto il diritto dell’Unione europea) forniscono a tutte queste questioni. In particolare, nella prima parte è analizzato il diritto all’istruzione e la sua qualificazione come diritto dell’uomo sul piano internazionale. Sulla scorta delle principali fonti che regolamentano la materia si è presa in considerazione la portata di tale diritto nei vari gradi di istruzione ed il limite costituito dai diritti dei genitori. E' stata fatta anche una riflessione sull’applicabilità di tale diritto –e degli obblighi corrispondenti che incombono sugli Stati – ai cittadini ed ai migranti che si trovino in situazione regolare o irregolare. Il primo profilo analizzato porta a concludere che l’istruzione è un diritto del singolo ed un dovere per gli Stati, che sono obbligati da precise norme di diritto internazionale a fornirla, investendo le risorse necessarie a raggiungere tale scopo. Ha pertanto un costo per lo Stato che la impartisce. La seconda parte è invece dedicata all’accesso alle professioni da parte degli stranieri, che ha come presupposto il riconoscimento dei titoli di studio e professionali rilasciati da paesi diversi da quello in cui si intende esercitare la professione. Data l’assenza di norme vincolanti di diritto internazionale generale in materia, l’attenzione è incentrata sulle principali fonti del diritto sovranazionale applicabili nelle regioni di cui fa parte l’Italia, ovvero l’Europa (intesa non solo come Unione europea, ma altresì come “Regione europea” dell’UNESCO e come insieme dei paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa) e l’area mediterranea. A tal proposito si è visto che negli ultimi decenni vi è stato il passaggio da una chiusura piuttosto rigida ad una certa apertura, almeno in Europa, ed il processo, pur fra mille difficoltà (confermate dalla scelta più recente di procedere mediante strumenti di soft law), e con una lentezza difficile da tollerare, sta continuando. Se si collegano questi due profili e si analizzano da una prospettiva meramente economica si deve concludere che uno Stato, per adempiere ai suoi obblighi in materia di istruzione, è tenuto ad investire risorse tutt’altro che trascurabili. Qualora le persone così istruite, al termine del periodo di formazione, decidano di sfruttare le competenze acquisite prestando la loro opera in un altro paese, tale Stato avrà effettuato un “investimento a fondo perduto”. Con ciò si vuol dire che, almeno per quanto riguarda le persone in possesso di una formazione avanzata, il problema principale per ogni Stato non dovrebbe essere tanto quello di limitare l’immigrazione ma, al contrario, quello di creare le condizioni affinché in primo luogo le persone formate a sue spese non emigrino (o eventualmente tornino, con quella che si definisce “migrazione circolare”) ed in secondo luogo per favorire l’immigrazione. Tale principio, in linea teorica e sempre sotto un profilo prettamente economico, vale in generale per tutti gli Stati del mondo. L’idea di favorire al massimo la circolazione dei lavoratori altamente qualificati, alla base del diritto UE in materia, ma anche degli strumenti pattizi di diritto internazionale, nonché del processo di Bologna, se è sicuramente lodevole, può tuttavia presentare delle controindicazioni. Nello specifico, vi è il rischio che ai paesi già meno sviluppati vengano sottratte anche le risorse umane (ed in particolare quelle di maggior valore), con il conseguente potenziale ulteriore aumento del gap che invece è indispensabile cercare di ridurre. Tale pericolo, seppur non inesistente (in particolare nel breve periodo), ha comunque portata ridotta nel diritto UE, non vigendo in generale a livello regionale (pur con qualche eccezione) le drammatiche differenze che invece sussistono sul piano universale. Questa è una delle ragioni per cui è possibile affermare che se è vero che in seno all’Unione europea è stato fatto non poco, è altrettanto vero che in materia ancor più dev’essere fatto, in particolare rivedendo, de iure condendo, il ruolo estremamente riduttivo in materia di istruzione e formazione professionale assegnato alle istituzioni comunitarie a partire dal Trattato di Maastricht. Garantire la libera circolazione dei lavoratori e dei servizi sulla base del solo riconoscimento reciproco dei titoli può infatti di favorire i fenomeni di abuso e di utilizzazione fraudolenta da parte delle persone fisiche o giuridiche di prerogative soggettive fondate su norme comunitarie. Sarebbe opportuna una seria riflessione su una riforma – anche dei trattati – che permetta di riprendere ed estendere il processo di armonizzazione dei percorsi formativi, da consacrare in atti giuridicamente vincolanti e non di soft law, andando così oltre la rotta tracciata dall’art. 15 della direttiva 2005/36. Sul piano universale parrebbe necessario riservare una maggiore attenzione non solo al riconoscimento dei titoli rilasciati dagli altri Stati, ma anche all’istruzione ed alla formazione dei cittadini dei paesi meno sviluppati finanziata ad opera dei paesi più sviluppati, col fine ultimo non tanto di costringere i migliori fra essi ad emigrare, quanto piuttosto di fornire al maggior numero possibile di individui (su scala mondiale) le conoscenze, le abilità e le competenze di cui avranno bisogno nella vita lavorativa e non solo di formare la classe dirigente. Tutto ciò evitando i rischi del c.d. “colonialismo culturale”, il che diventa possibile se si procede applicando i principi dettati dal diritto internazionale, fra cui in primis l’obbligo di rispettare le convinzioni religiose e filosofiche dei genitori che, come meglio descritto supra, si impone agli Stati, in particolare che procedano all’istruzione dei fanciulli. Principio che, nell’ipotesi summenzionata, presenta evidentemente una particolare importanza.

Istruzione ed accesso alle professioni

PASQUALI, LEONARDO
2012-01-01

Abstract

Il contributo di compone di due parti, distinte, ma complementari. La prima di queste parti e' dedicata al diritto all'istruzione come diritto umano, mentre la seconda al riconoscimento dei titoli e l'accesso alle professioni. L’istruzione non solo è un diritto umano di per sé, ma costituisce altresi' un mezzo indispensabile per realizzare altri diritti umani. È considerata come il “veicolo primario” con cui persone emarginate sotto il profilo economico e sociale possono uscire dalla povertà ed ottenere i mezzi per partecipare pienamente alla vita della comunità cui appartengono. Viene ritenuta fondamentale per migliorare le condizioni di vita delle donne, per salvaguardare i minori dallo sfruttamento sia lavorativo che sessuale, per promuovere i diritti umani e la democrazia, per proteggere l’ambiente e per controllare la crescita della popolazione. È descritta come uno dei migliori investimenti (anche sul piano finanziario) che gli Stati possono effettuare. In materia di migranti tale tema assume una valenza specifica, nella misura in cui l’istruzione costituisce una pietra miliare del processo di integrazione dei migranti stessi. Fra le funzioni che, in generale, l’istruzione ha vi è anche quella di fornire agli studenti le conoscenze, le abilità e le competenze di cui avranno bisogno nella vita lavorativa. É attraverso il rilascio di diplomi ed altri titoli che viene certificata l’assunzione di tali conoscenze, abilità e competenze. In relazione al fenomeno migratorio, inoltre, esiste una questione specifica, consistente nel riconoscimento nello Stato di accoglienza dei diplomi e più in generale dei titoli ottenuti nello Stato di origine (o comunque in uno Stato diverso da quello di accoglienza). Problema che si pone con particolare rilievo per le c.d. “professioni regolamentate”, ovvero quelle attività, o insieme di attività professionali, l'accesso alle quali e il cui esercizio, o una delle cui modalità di esercizio, sono subordinati direttamente o indirettamente, in forza di norme legislative, regolamentari o amministrative, al possesso di determinate qualifiche professionali. Nel contributo sono esaminate le soluzioni che il diritto internazionale, tanto a carattere universale quanto a carattere regionale europeo (incluso pertanto il diritto dell’Unione europea) forniscono a tutte queste questioni. In particolare, nella prima parte è analizzato il diritto all’istruzione e la sua qualificazione come diritto dell’uomo sul piano internazionale. Sulla scorta delle principali fonti che regolamentano la materia si è presa in considerazione la portata di tale diritto nei vari gradi di istruzione ed il limite costituito dai diritti dei genitori. E' stata fatta anche una riflessione sull’applicabilità di tale diritto –e degli obblighi corrispondenti che incombono sugli Stati – ai cittadini ed ai migranti che si trovino in situazione regolare o irregolare. Il primo profilo analizzato porta a concludere che l’istruzione è un diritto del singolo ed un dovere per gli Stati, che sono obbligati da precise norme di diritto internazionale a fornirla, investendo le risorse necessarie a raggiungere tale scopo. Ha pertanto un costo per lo Stato che la impartisce. La seconda parte è invece dedicata all’accesso alle professioni da parte degli stranieri, che ha come presupposto il riconoscimento dei titoli di studio e professionali rilasciati da paesi diversi da quello in cui si intende esercitare la professione. Data l’assenza di norme vincolanti di diritto internazionale generale in materia, l’attenzione è incentrata sulle principali fonti del diritto sovranazionale applicabili nelle regioni di cui fa parte l’Italia, ovvero l’Europa (intesa non solo come Unione europea, ma altresì come “Regione europea” dell’UNESCO e come insieme dei paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa) e l’area mediterranea. A tal proposito si è visto che negli ultimi decenni vi è stato il passaggio da una chiusura piuttosto rigida ad una certa apertura, almeno in Europa, ed il processo, pur fra mille difficoltà (confermate dalla scelta più recente di procedere mediante strumenti di soft law), e con una lentezza difficile da tollerare, sta continuando. Se si collegano questi due profili e si analizzano da una prospettiva meramente economica si deve concludere che uno Stato, per adempiere ai suoi obblighi in materia di istruzione, è tenuto ad investire risorse tutt’altro che trascurabili. Qualora le persone così istruite, al termine del periodo di formazione, decidano di sfruttare le competenze acquisite prestando la loro opera in un altro paese, tale Stato avrà effettuato un “investimento a fondo perduto”. Con ciò si vuol dire che, almeno per quanto riguarda le persone in possesso di una formazione avanzata, il problema principale per ogni Stato non dovrebbe essere tanto quello di limitare l’immigrazione ma, al contrario, quello di creare le condizioni affinché in primo luogo le persone formate a sue spese non emigrino (o eventualmente tornino, con quella che si definisce “migrazione circolare”) ed in secondo luogo per favorire l’immigrazione. Tale principio, in linea teorica e sempre sotto un profilo prettamente economico, vale in generale per tutti gli Stati del mondo. L’idea di favorire al massimo la circolazione dei lavoratori altamente qualificati, alla base del diritto UE in materia, ma anche degli strumenti pattizi di diritto internazionale, nonché del processo di Bologna, se è sicuramente lodevole, può tuttavia presentare delle controindicazioni. Nello specifico, vi è il rischio che ai paesi già meno sviluppati vengano sottratte anche le risorse umane (ed in particolare quelle di maggior valore), con il conseguente potenziale ulteriore aumento del gap che invece è indispensabile cercare di ridurre. Tale pericolo, seppur non inesistente (in particolare nel breve periodo), ha comunque portata ridotta nel diritto UE, non vigendo in generale a livello regionale (pur con qualche eccezione) le drammatiche differenze che invece sussistono sul piano universale. Questa è una delle ragioni per cui è possibile affermare che se è vero che in seno all’Unione europea è stato fatto non poco, è altrettanto vero che in materia ancor più dev’essere fatto, in particolare rivedendo, de iure condendo, il ruolo estremamente riduttivo in materia di istruzione e formazione professionale assegnato alle istituzioni comunitarie a partire dal Trattato di Maastricht. Garantire la libera circolazione dei lavoratori e dei servizi sulla base del solo riconoscimento reciproco dei titoli può infatti di favorire i fenomeni di abuso e di utilizzazione fraudolenta da parte delle persone fisiche o giuridiche di prerogative soggettive fondate su norme comunitarie. Sarebbe opportuna una seria riflessione su una riforma – anche dei trattati – che permetta di riprendere ed estendere il processo di armonizzazione dei percorsi formativi, da consacrare in atti giuridicamente vincolanti e non di soft law, andando così oltre la rotta tracciata dall’art. 15 della direttiva 2005/36. Sul piano universale parrebbe necessario riservare una maggiore attenzione non solo al riconoscimento dei titoli rilasciati dagli altri Stati, ma anche all’istruzione ed alla formazione dei cittadini dei paesi meno sviluppati finanziata ad opera dei paesi più sviluppati, col fine ultimo non tanto di costringere i migliori fra essi ad emigrare, quanto piuttosto di fornire al maggior numero possibile di individui (su scala mondiale) le conoscenze, le abilità e le competenze di cui avranno bisogno nella vita lavorativa e non solo di formare la classe dirigente. Tutto ciò evitando i rischi del c.d. “colonialismo culturale”, il che diventa possibile se si procede applicando i principi dettati dal diritto internazionale, fra cui in primis l’obbligo di rispettare le convinzioni religiose e filosofiche dei genitori che, come meglio descritto supra, si impone agli Stati, in particolare che procedano all’istruzione dei fanciulli. Principio che, nell’ipotesi summenzionata, presenta evidentemente una particolare importanza.
2012
Pasquali, Leonardo
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