L'antropologia culturale si compiace oggi di attraversare una fase post-paradigmatica, di superamento delle Grandi Teorie classiche a favore di una maggiore centralità e autonomia dell’esperienza etnografica. Dall’altra parte, tuttavia, è andato impoverendosi il raffinato dibattito epistemologico che negli ultimi decenni del ventesimo secolo aveva accompagnato la svolta interpretativa e riflessiva. Al suo posto, si sono affermati orientamenti legati alla teoria poststruttalista e postcoloniale, centrati attorno a macro-modelli di critica alla società occidentale tardo-capitalista e al cosiddetto neoliberismo globale. Riuniti talvolta sotto la generica etichetta di “antropologia critica”, tali indirizzi pongono l’accento sui grandi meccanismi del potere economico-politico mondiale e sulle forme del dominio che esercitano sui gruppi subalterni. Il potere – piuttosto che la cultura o i significati - è la sostanza che le loro analisi tendono a scoprire – anzi, a disvelare rispetto alle coperture e ai mascheramenti dietro i quali il potere stesso dissimula la propria violenza e arbitrarietà. In questo quadro la cultura viene spesso declassata a “sovrastruttura”, “ideologia” o “falsa coscienza”. La concezione ermeneutica della comprensione antropologica, e il tentativo (da parte di Geertz, ad esempio) di capire anche la stessa politica in termini di costellazioni locali di significati, viene completamente rovesciata. Tutta l’antropologia è antropologia politica, si dice, nel senso che i diversi campi della cultura devono essere ricondotti al lavoro di una teoria generale del Potere e a una sua genealogia storico-filosofica. Tanto che, secondo qualcuno, l’antropologia dovrebbe oggi non più descrivere le culture ma “scrivere contro la cultura”. Il disagio di fronte a simili posizioni viene proprio dall’attacco all’autonomia della dimensione culturale e dalla reintroduzione di un determinismo strutturale (di tipo politico-economico oppure foucaultiano). Oltre che (almeno per quanto mi riguarda) da una irresistibile antipatia per il linguaggio criptico, allusivo e gergale che si è affermato come brand degli studi postcoloniali; e per il dogmatismo ideologico e l’ossessione per il politically correct che mi sembra di cogliere in quello stile di pensiero. Certo, gli approcci critici hanno fatto presa sul fascino di un impegno etico-politico a favore dei “dannati della terra” – che è difficile non condividere di fronte ai drammi, alle sperequazioni e alle violenze strutturali del nostro tempo. Ma la prevalenza del momento militante su quello metodologico ha prodotto una estrema frammentazione dei riferimenti teorici, specie nelle generazioni più giovani. Ad esempio, leggendo tesi di laurea e di dottorato ci si imbatte sempre più spesso in spezzoni di teoria critica usati in stile da bricolage, in modo implicito, senza la consapevolezza dei presupposti che l’uso di un certo concetto (poniamo “Impero”, “decostruzione”, “nuda vita” etc.) si porta dietro. Ci è sembrato dunque importante portare in primo piano questi problemi, esserne almeno consapevoli, dipanare i grovigli di fili epistemologici e teoretici che si nascondono dietro quel lessico teorico ; insomma portare maggiore chiarezza e trasparenza nel nostro campo di studi. Tentativo tanto più importante per una tradizione di studi come quella italiana, oggi decisamente priva di compattezza ma con un passato (legato ai nomi di Gramsci e De Martino) che aveva già posto al centro le questioni “critiche”; e lo aveva fatto per altro con molta maggior lucidità storicista, elaborando attraverso il concetto di egemonia un rapporto non riduttivo e deterministico tra il potere e la cultura.

Di Stato si muore? Per una critica all'antropologia critica

fabio dei
2017-01-01

Abstract

L'antropologia culturale si compiace oggi di attraversare una fase post-paradigmatica, di superamento delle Grandi Teorie classiche a favore di una maggiore centralità e autonomia dell’esperienza etnografica. Dall’altra parte, tuttavia, è andato impoverendosi il raffinato dibattito epistemologico che negli ultimi decenni del ventesimo secolo aveva accompagnato la svolta interpretativa e riflessiva. Al suo posto, si sono affermati orientamenti legati alla teoria poststruttalista e postcoloniale, centrati attorno a macro-modelli di critica alla società occidentale tardo-capitalista e al cosiddetto neoliberismo globale. Riuniti talvolta sotto la generica etichetta di “antropologia critica”, tali indirizzi pongono l’accento sui grandi meccanismi del potere economico-politico mondiale e sulle forme del dominio che esercitano sui gruppi subalterni. Il potere – piuttosto che la cultura o i significati - è la sostanza che le loro analisi tendono a scoprire – anzi, a disvelare rispetto alle coperture e ai mascheramenti dietro i quali il potere stesso dissimula la propria violenza e arbitrarietà. In questo quadro la cultura viene spesso declassata a “sovrastruttura”, “ideologia” o “falsa coscienza”. La concezione ermeneutica della comprensione antropologica, e il tentativo (da parte di Geertz, ad esempio) di capire anche la stessa politica in termini di costellazioni locali di significati, viene completamente rovesciata. Tutta l’antropologia è antropologia politica, si dice, nel senso che i diversi campi della cultura devono essere ricondotti al lavoro di una teoria generale del Potere e a una sua genealogia storico-filosofica. Tanto che, secondo qualcuno, l’antropologia dovrebbe oggi non più descrivere le culture ma “scrivere contro la cultura”. Il disagio di fronte a simili posizioni viene proprio dall’attacco all’autonomia della dimensione culturale e dalla reintroduzione di un determinismo strutturale (di tipo politico-economico oppure foucaultiano). Oltre che (almeno per quanto mi riguarda) da una irresistibile antipatia per il linguaggio criptico, allusivo e gergale che si è affermato come brand degli studi postcoloniali; e per il dogmatismo ideologico e l’ossessione per il politically correct che mi sembra di cogliere in quello stile di pensiero. Certo, gli approcci critici hanno fatto presa sul fascino di un impegno etico-politico a favore dei “dannati della terra” – che è difficile non condividere di fronte ai drammi, alle sperequazioni e alle violenze strutturali del nostro tempo. Ma la prevalenza del momento militante su quello metodologico ha prodotto una estrema frammentazione dei riferimenti teorici, specie nelle generazioni più giovani. Ad esempio, leggendo tesi di laurea e di dottorato ci si imbatte sempre più spesso in spezzoni di teoria critica usati in stile da bricolage, in modo implicito, senza la consapevolezza dei presupposti che l’uso di un certo concetto (poniamo “Impero”, “decostruzione”, “nuda vita” etc.) si porta dietro. Ci è sembrato dunque importante portare in primo piano questi problemi, esserne almeno consapevoli, dipanare i grovigli di fili epistemologici e teoretici che si nascondono dietro quel lessico teorico ; insomma portare maggiore chiarezza e trasparenza nel nostro campo di studi. Tentativo tanto più importante per una tradizione di studi come quella italiana, oggi decisamente priva di compattezza ma con un passato (legato ai nomi di Gramsci e De Martino) che aveva già posto al centro le questioni “critiche”; e lo aveva fatto per altro con molta maggior lucidità storicista, elaborando attraverso il concetto di egemonia un rapporto non riduttivo e deterministico tra il potere e la cultura.
2017
Dei, Fabio
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11568/884428
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