La lotta alla povertà, intesa come funzionale al perseguimento della pari dignità sociale e dell’eguaglianza sostanziale di cui all’art.3, 1 e 2 comma Cost., trova forse un più profondo radicamento nel principio personalista di cui al precedente art.2. Cost. che impone quale fine prioritario dello Stato lo sviluppo della persona umana . Tale sviluppo richiede come presupposto il riconoscimento dei diritti “sociali” la cui effettività impone alla Repubblica il dovere di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese ( art.3, comma 2 Cost.). Allo stesso tempo, il principio personalistico insito nei suddetti articoli implica una centralità della persona, dell’uomo, quale essere necessariamente inserito all’interno di un tessuto sociale del quale ha bisogno per il suo sviluppo. Come è stato osservato, infatti, l’individuo non può realizzarsi autonomamente ma si realizza “socialmente” attraverso un processo di cui è egli stesso il risultato . Ne deriva una interdipendenza, una solidarietà tra i membri di una società che può realmente progredire solo se la “progressione in avanti” coinvolge i più deboli, traducendosi così in un progresso completo e non in uno sviluppo disorganico limitato ad alcune parti . In forza dello stesso principio, la solidarietà di cui all’art.2 Cost. non può che essere interpretata in un senso più ampio di un aiuto meramente assistenziale per giungere a ricomprendere non solo “chi deve essere soltanto aiutato” ma anche, “chi va “aiutato ad aiutarsi” e, quindi, può a sua volta essere gravato di doveri . In questa prospettiva pertanto, il perseguimento dell’inclusione sociale e la lotta alla povertà devono necessariamente svolgersi attraverso un percorso di impegno reciproco con la persona beneficiaria del sostegno. In questo senso, le misure di sostegno economico assimilabili al minimo vitale, quale da ultimo il Sostegno di inclusione attiva ( Sia), non possono essere incondizionati, ma risultano coerenti con la prospettiva personalistica di cui all’art.2 e 3 Cost, solo se accompagnate da altrettante misure che garantiscano la partecipazione attiva dell’individuo alla società, sia attraverso il lavoro, sia attraverso attività o funzioni che concorrano “al progresso materiale o spirituale della società” (art.4 Cost.) . D’altro canto, in funzione del principio personalistico, il “diritto al mantenimento” di cui all’art. 38 Cost., come anche il diritto ad “un’esistenza libera e dignitosa” affermato dall’art.36 Cost., meritano d’essere interpretati in un senso più ampio ed adeguato all’attuale contesto socio economico in cui l’assenza dei mezzi necessari è riconducibile anche a ragioni diverse dalla mera inabilità fisica al lavoro . Soprattutto in considerazione delle trasformazioni tecnologiche, economiche e sociali che hanno inciso sul mercato del lavoro che appare in continua evoluzione producendo nuove categorie di lavoratori di sfuggente definizione . Si tratta di consolidare il superamento, in parte già avviato dalla legge n.328/2000, della tradizionale interpretazione dell’art.38 Cost. che ha prodotto un sistema di sicurezza sociale a vocazione categoriale e selettiva, frammentato e inadeguato a rispondere alle fragilità dei soggetti non ricompresi in alcuna categoria o il cui disagio non è normativamente qualificato come tale . In questa ottica, l’introduzione di un minimo vitale non può che essere caratterizzata, da un lato, da misure di assistenza sociale, mirate all’emancipazione della persona dal bisogno e al suo inserimento nella vita sociale, politica ed economica della comunità di riferimento ; dall’altro, deve essere improntate a criteri di “universalismo selettivo”, in base al quale il reddito minimo è erogato “selettivamente” solo ai soggetti le cui risorse siano sotto la soglia di povertà e “universalmente” a tutti i soggetti sotto tale soglia . Ne derivano implicazioni concernenti la misurazione della povertà che non possono essere affrontate in questa sede. Il fine di questa riflessione è comprendere in che misura i diversi interventi legislativi volti all’introduzione di un minimo vitale si siano avvicinati all’obiettivo di garantire un’esistenza degna ( ius existantiae). Senza anticipare quanto si avrà modo di rilevare nelle conclusioni, si evidenzia sin da subito come l’elemento comune a tutte le misure introdotte nell’arco di un ventennio sia la frammentarietà e l’inadeguatezza delle risorse finanziarie, il che lascia aperto l’interrogativo circa la consapevolezza del legislatore dell’urgenza di una concreta misura di garanzia del minimo vitale .

Gli strumenti di lotta alla povertà e di garanzia di una vita dignitosa. Quale minimo vitale?

F. Nugnes
2017-01-01

Abstract

La lotta alla povertà, intesa come funzionale al perseguimento della pari dignità sociale e dell’eguaglianza sostanziale di cui all’art.3, 1 e 2 comma Cost., trova forse un più profondo radicamento nel principio personalista di cui al precedente art.2. Cost. che impone quale fine prioritario dello Stato lo sviluppo della persona umana . Tale sviluppo richiede come presupposto il riconoscimento dei diritti “sociali” la cui effettività impone alla Repubblica il dovere di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese ( art.3, comma 2 Cost.). Allo stesso tempo, il principio personalistico insito nei suddetti articoli implica una centralità della persona, dell’uomo, quale essere necessariamente inserito all’interno di un tessuto sociale del quale ha bisogno per il suo sviluppo. Come è stato osservato, infatti, l’individuo non può realizzarsi autonomamente ma si realizza “socialmente” attraverso un processo di cui è egli stesso il risultato . Ne deriva una interdipendenza, una solidarietà tra i membri di una società che può realmente progredire solo se la “progressione in avanti” coinvolge i più deboli, traducendosi così in un progresso completo e non in uno sviluppo disorganico limitato ad alcune parti . In forza dello stesso principio, la solidarietà di cui all’art.2 Cost. non può che essere interpretata in un senso più ampio di un aiuto meramente assistenziale per giungere a ricomprendere non solo “chi deve essere soltanto aiutato” ma anche, “chi va “aiutato ad aiutarsi” e, quindi, può a sua volta essere gravato di doveri . In questa prospettiva pertanto, il perseguimento dell’inclusione sociale e la lotta alla povertà devono necessariamente svolgersi attraverso un percorso di impegno reciproco con la persona beneficiaria del sostegno. In questo senso, le misure di sostegno economico assimilabili al minimo vitale, quale da ultimo il Sostegno di inclusione attiva ( Sia), non possono essere incondizionati, ma risultano coerenti con la prospettiva personalistica di cui all’art.2 e 3 Cost, solo se accompagnate da altrettante misure che garantiscano la partecipazione attiva dell’individuo alla società, sia attraverso il lavoro, sia attraverso attività o funzioni che concorrano “al progresso materiale o spirituale della società” (art.4 Cost.) . D’altro canto, in funzione del principio personalistico, il “diritto al mantenimento” di cui all’art. 38 Cost., come anche il diritto ad “un’esistenza libera e dignitosa” affermato dall’art.36 Cost., meritano d’essere interpretati in un senso più ampio ed adeguato all’attuale contesto socio economico in cui l’assenza dei mezzi necessari è riconducibile anche a ragioni diverse dalla mera inabilità fisica al lavoro . Soprattutto in considerazione delle trasformazioni tecnologiche, economiche e sociali che hanno inciso sul mercato del lavoro che appare in continua evoluzione producendo nuove categorie di lavoratori di sfuggente definizione . Si tratta di consolidare il superamento, in parte già avviato dalla legge n.328/2000, della tradizionale interpretazione dell’art.38 Cost. che ha prodotto un sistema di sicurezza sociale a vocazione categoriale e selettiva, frammentato e inadeguato a rispondere alle fragilità dei soggetti non ricompresi in alcuna categoria o il cui disagio non è normativamente qualificato come tale . In questa ottica, l’introduzione di un minimo vitale non può che essere caratterizzata, da un lato, da misure di assistenza sociale, mirate all’emancipazione della persona dal bisogno e al suo inserimento nella vita sociale, politica ed economica della comunità di riferimento ; dall’altro, deve essere improntate a criteri di “universalismo selettivo”, in base al quale il reddito minimo è erogato “selettivamente” solo ai soggetti le cui risorse siano sotto la soglia di povertà e “universalmente” a tutti i soggetti sotto tale soglia . Ne derivano implicazioni concernenti la misurazione della povertà che non possono essere affrontate in questa sede. Il fine di questa riflessione è comprendere in che misura i diversi interventi legislativi volti all’introduzione di un minimo vitale si siano avvicinati all’obiettivo di garantire un’esistenza degna ( ius existantiae). Senza anticipare quanto si avrà modo di rilevare nelle conclusioni, si evidenzia sin da subito come l’elemento comune a tutte le misure introdotte nell’arco di un ventennio sia la frammentarietà e l’inadeguatezza delle risorse finanziarie, il che lascia aperto l’interrogativo circa la consapevolezza del legislatore dell’urgenza di una concreta misura di garanzia del minimo vitale .
2017
Nugnes, F.
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