Il rapporto tra l’antropologia culturale e la concezione filosofica e giuridica dei diritti che plasma la Dichiarazione Universale del 1948 è stato fin dall’inizio difficile. Eppure gli obiettivi erano simili. L’antropologia si era battuta per tutta la prima metà del Novecento contro il razzismo e il determinismo biologico, e contro i pregiudizi etnocentrici e coloniali che plasmavano largamente il senso comune occidentale. Soprattutto la scuola antropologica nordamericana era intervenuta in difesa dei popoli indigeni, vittime di una oppressione coloniale e di una violenza spesso genocida che appariva alla maggioranza dell’opinione pubblica come un inevitabile sottoprodotto del progresso. Non sono forse le medesime finalità che la Commissione per la UDHR persegue? Certo; ma le strategie adottate sono diverse, persino opposte. Infatti la Commissione intraprende una strada decisamente illuminista e universalista. A fronte dei disastri provocati dai nazionalismi trionfanti, sente il bisogno di aggrapparsi a un’etica egalitaria e razionalista, basata su imperativi categorici che devono essere gli stessi per tutto il genere umano, per qualunque individuo indipendentemente dalle sue caratteristiche di appartenenza. La strada intrapresa dall’antropologia, invece, è stata quella del riconoscimento della diversità – in altre parole, del relativismo culturale. La battaglia contro il razzismo e la discriminazione non può esser condotta in nome di una visione universale del soggetto umano – dove la pretesa universalità finirebbe per nascondere assunti e pregiudizi etnocentrici. Studiando soprattutto le piccole società tradizionali, gli antropologi pongono l’accento sulla loro irriducibile peculiarità. Certo, non negano l’esistenza di universali culturali: ma sono soprattutto interessati alla variabilità con cui le diverse culture affrontano i problemi del rapporto con l’ambiente, dell’organizzazione sociale, della comunicazione linguistica, dell’espressione estetica e così via. L’uguaglianza si ottiene non annullando queste differenze, bensì ammettendole tutte come ugualmente legittime, come ugualmente “umane” e non classificabili come superiori o inferiori, avanzate o arretrate. La tensione fra queste due impostazioni si manifesterà in molte occasioni nei 70 anni che ci separano dalla Dichiarazione dei diritti. Il relativismo dello Statement of Human Rights appare oggi difficilmente sostenibile, ma continua a porre problemi e a chiedere di "temperare" l'universalismo giuridico.

Un universalismo ben temperato

Fabio Dei
2018-01-01

Abstract

Il rapporto tra l’antropologia culturale e la concezione filosofica e giuridica dei diritti che plasma la Dichiarazione Universale del 1948 è stato fin dall’inizio difficile. Eppure gli obiettivi erano simili. L’antropologia si era battuta per tutta la prima metà del Novecento contro il razzismo e il determinismo biologico, e contro i pregiudizi etnocentrici e coloniali che plasmavano largamente il senso comune occidentale. Soprattutto la scuola antropologica nordamericana era intervenuta in difesa dei popoli indigeni, vittime di una oppressione coloniale e di una violenza spesso genocida che appariva alla maggioranza dell’opinione pubblica come un inevitabile sottoprodotto del progresso. Non sono forse le medesime finalità che la Commissione per la UDHR persegue? Certo; ma le strategie adottate sono diverse, persino opposte. Infatti la Commissione intraprende una strada decisamente illuminista e universalista. A fronte dei disastri provocati dai nazionalismi trionfanti, sente il bisogno di aggrapparsi a un’etica egalitaria e razionalista, basata su imperativi categorici che devono essere gli stessi per tutto il genere umano, per qualunque individuo indipendentemente dalle sue caratteristiche di appartenenza. La strada intrapresa dall’antropologia, invece, è stata quella del riconoscimento della diversità – in altre parole, del relativismo culturale. La battaglia contro il razzismo e la discriminazione non può esser condotta in nome di una visione universale del soggetto umano – dove la pretesa universalità finirebbe per nascondere assunti e pregiudizi etnocentrici. Studiando soprattutto le piccole società tradizionali, gli antropologi pongono l’accento sulla loro irriducibile peculiarità. Certo, non negano l’esistenza di universali culturali: ma sono soprattutto interessati alla variabilità con cui le diverse culture affrontano i problemi del rapporto con l’ambiente, dell’organizzazione sociale, della comunicazione linguistica, dell’espressione estetica e così via. L’uguaglianza si ottiene non annullando queste differenze, bensì ammettendole tutte come ugualmente legittime, come ugualmente “umane” e non classificabili come superiori o inferiori, avanzate o arretrate. La tensione fra queste due impostazioni si manifesterà in molte occasioni nei 70 anni che ci separano dalla Dichiarazione dei diritti. Il relativismo dello Statement of Human Rights appare oggi difficilmente sostenibile, ma continua a porre problemi e a chiedere di "temperare" l'universalismo giuridico.
2018
Dei, Fabio
File in questo prodotto:
File Dimensione Formato  
2018 Testimonianze Universalismo ben temperato.pdf

solo utenti autorizzati

Tipologia: Versione finale editoriale
Licenza: NON PUBBLICO - Accesso privato/ristretto
Dimensione 1.01 MB
Formato Adobe PDF
1.01 MB Adobe PDF   Visualizza/Apri   Richiedi una copia

I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11568/950712
Citazioni
  • ???jsp.display-item.citation.pmc??? ND
  • Scopus ND
  • ???jsp.display-item.citation.isi??? ND
social impact