Nel 1929, Karl Mannheim definì l’utopia come “visione strutturale della totalità che è e diviene, trascendimento del puro dato, sistema di orientamento teso a rompere i legami dell’ordine esistente per riconquistarli a un più alto e diverso livello”, laddove con l’espressione “visione strutturale” Mannheim intendeva la produzione di un cambiamento sociale, politico ed economico come fine ultimo dell’utopia. Ci si chiede se negli ultimi trent’anni tale cambiamento sia avvenuto e, in caso affermativo, in che misura esso abbia contribuito alla modificazione della figura dell’intellettuale. Inoltre, possiamo ritenere che tale figura sia ancora dotata di alcuni margini di autonomia oppure essa è rimasta intrappolata all’interno degli stessi sistemi e apparati sociali, politici ed economici all’interno dei quali il cambiamento sarebbe dovuto avvenire? Per rispondere a questi interrogativi, si ricorre al confronto tra le posizioni dello storico dell’arte Edgar Wind, che si espresse sulle condizioni imposte al lavoro creativo nel momento in cui esso si prestava a diventare lavoro dipendente (“Arte e Anarchia”, 1963), e il sociologo Maurizio Lazzarato, che riflette sull’attuale trasformazione della classe lavorativa in una “classe creativa dipendente” (“Immaterial Labor”, 1996), vale a dire, una classe di “lavoratori cooperativi”, di “trasmettitori” di informazioni, di abili comunicatori e venditori di “prodotti” intellettuali, dotati di quelli che Richard Sennett chiama “dialogic skills”. Successivamente si analizzerà nello specifico la posizione di Manfredo Tafuri all’interno di questo dibattito, in riferimento al suo saggio “Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico” (1970).
“Utopia o Disinganno”, in "Viceversa", no. 6, July 2017
Lina Malfona
2017-01-01
Abstract
Nel 1929, Karl Mannheim definì l’utopia come “visione strutturale della totalità che è e diviene, trascendimento del puro dato, sistema di orientamento teso a rompere i legami dell’ordine esistente per riconquistarli a un più alto e diverso livello”, laddove con l’espressione “visione strutturale” Mannheim intendeva la produzione di un cambiamento sociale, politico ed economico come fine ultimo dell’utopia. Ci si chiede se negli ultimi trent’anni tale cambiamento sia avvenuto e, in caso affermativo, in che misura esso abbia contribuito alla modificazione della figura dell’intellettuale. Inoltre, possiamo ritenere che tale figura sia ancora dotata di alcuni margini di autonomia oppure essa è rimasta intrappolata all’interno degli stessi sistemi e apparati sociali, politici ed economici all’interno dei quali il cambiamento sarebbe dovuto avvenire? Per rispondere a questi interrogativi, si ricorre al confronto tra le posizioni dello storico dell’arte Edgar Wind, che si espresse sulle condizioni imposte al lavoro creativo nel momento in cui esso si prestava a diventare lavoro dipendente (“Arte e Anarchia”, 1963), e il sociologo Maurizio Lazzarato, che riflette sull’attuale trasformazione della classe lavorativa in una “classe creativa dipendente” (“Immaterial Labor”, 1996), vale a dire, una classe di “lavoratori cooperativi”, di “trasmettitori” di informazioni, di abili comunicatori e venditori di “prodotti” intellettuali, dotati di quelli che Richard Sennett chiama “dialogic skills”. Successivamente si analizzerà nello specifico la posizione di Manfredo Tafuri all’interno di questo dibattito, in riferimento al suo saggio “Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico” (1970).I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.